RITIRO URBANO di studio e pratica
Torino, 12-18 gennaio 2015
da lunedì a venerdì, ore 19.30-21.30 (seminario)
sabato e domenica ore 9.30-19.30 (intensivo di meditazione)
Il “ritiro urbano” comincia nel momento in cui si formula la chiara intenzione di dedicare – per una settimana – un tempo e una cura particolari alla meditazione e allo studio del Dhamma con il sostegno del gruppo e di un programma condiviso. Integrando l’enfasi su contenimento sensoriale, quiete e riflessione tipica del classico ritiro residenziale con le normali attività e relazioni del quotidiano.informazioni qui: RITIRO URBANO di pratica e studio del Dhamma – Torino, gennaio 2015 (2)
Scarica testo su LINGUAGGIO ETICO sammavaca AbhayaSutta
ASCOLTA FILE AUDIO SEMINARIO SAMMAVACA
Mi rendo conto che l’Abhaya Sutta è un solo discorso e va letto tenendo vivi nel cuore e nella mente tutti gli insegnamenti. Forse l’elenco riportato verso la fine può indurre a prenderlo per un sommario di regole il cui intreccio decreterà se parlare o tacere, ma trovo che la sua ricchezza stia nell’invito ad interrogarsi sulla situazione, per non farsi guidare da automatismi o da intenzioni non salutari ed invece allargare lo sguardo. E seguendo questa traccia, le domande di Anna Caterina mi hanno suggerito due considerazioni.
La prima è che forse quando abbiamo a che fare con delle verità difficili da dire siamo noi per primi a trovarle difficili da accettare. Ad esempio: è stata diagnosticata una malattia molto grave ad un familiare e vorremmo rasserenarlo tacendo la diagnosi o, ancora di più, comunicandone una falsa. Ma noi come ci sentiamo? Cosa pensiamo della situazione? Siamo forse noi i primi a pensare che in quelle condizioni la vita perde il suo senso, che sia una cosa terribile e che non la si possa reggere? Magari, dopo averci lavorato un po’, scopriamo un modo diverso di vivere ciò che sta accadendo e riusciamo a sentire con maggior libertà ciò che la situazione richiede: cosa serve a noi e all’altro per poterla affrontare, quali delle tante cose vere di quel momento è utile dire, quando e come. Perchè forse non è tanto una specifica informazione a creare problemi, ammesso che sia utile dirla, quanto l’insieme: cosa significa per noi e per l’altro, come la porgiamo, come si può aiutare l’altro ad accoglierla.
Forse questo vale anche per i casi come quello descritto da Anna Caterina, che mi ha fatto pensare anche a quali siano le cose “vere”. Gli adulti che ascoltano i bambini possono capire cosa questi si stanno chiedendo, attraverso le domande che pongono: se sono preoccupati per i genitori, se vogliono rassicurazioni di non essere abbandonati, che si vuole loro bene.. Le verità che i bambini hanno bisogno di conoscere non sono le risposte a quelle domande? Cioè che i genitori vogliono loro bene; che, se assenti, vorrebbero essere lì, ma non possono perché trattenuti altrove.. Solo chi è vicino può ascoltare (se stesso ed i bambini) e scegliere come dire queste verità, se dire anche le ragioni “esterne” per cui i genitori sono assenti e come farlo in modo che i bambini possano capirlo ed utilizzarlo bene. Forse è importante l’intenzione: è di mentire o di dire la verità nella forma che può essere compresa in quel momento, adattandola poi man mano che il bambino cresce alla verità condivisa tra tutti? In quel caso, non è un po’ come capita quando muore una donna e si dice al suo bambino piccolo che la madre è in cielo e continua a volergli bene? È falso? Oppure è solo un modo per dire una verità, cioè che anche se la madre non sarà più fisicamente accanto a lui, resterà dentro di lui come presenza buona, un modo che il bambino capisce e che integrerà poco per volta con il fatto che la madre “è morta”?
Volevo fare conoscere a tutti un mio sogno fatto alcuni giorni dopo il ritiro urbano di Torino:
“Ero da solo nella casa in cui vivevo da ragazzo con i miei genitori e periodicamente il demonio passava con una violenza inaudita, riempiendo la casa di fuoco.
Io ero terrorizzato da questi periodici passaggi e non sapevo come fare per proteggermi da questo essere che si nascondeva anche all’interno di sembianze umane.
Ad un certo punto del sogno mi sono reso conto che se mi avvicinavo ad un essere umano o animale con un determinato pezzo di metallo di forma rotonda in mano, se il demonio si celava all’interno di questo essere, il pezzo di metallo diventava nero: ero in grado di sapere dove il demonio si nascondeva, anche se non sapevo ancora come affrontarlo.
A poco a poco mi sono però reso conto che il demonio non amava essere visto, smascherato, e che quando si rendeva conto di essere stato scoperto tendeva a indietreggiare, a nascondersi e scappare!!!
A poco a poco mi rendevo anche conto che la maggior parte delle persone, in forma più o meno accentuata aveva demoni dentro di se, ed erano loro stessi stupiti quando se ne rendevano conto, anzi veniva loro a cercarmi per sapere se celavano il diavoli dentro di loro …”
Un caro saluto
Giampaolo
Il problema si pone più frequentemente con i bambini o con le persone molto malate. Esempio pratico: la bambina di una mia cugina chiedeva sempre perché non vedeva il padre, perché lui non la andava mai a trovare o a prendere all’asilo. Vedeva i suoi compagnetti con mamma e papà e non capiva perché lei aveva solo la mamma. Il padre era in prigione. Cosa dovevamo dirle? Se le avessimo detto la verità i suoi complessi di inferiorità rispetto agli altri bambini sarebbero aumentati. Le dicevamo che il padre lavorava lontano da Roma, è che appena avesse finito il lavoro che stava facendo sarebbe andato da lei. Recentemente il padre è uscito di prigione ed ora sta con lei. Ritengo che abbiamo detto una bugia utile a minimizzare i danni. Naturalmente qualcuno potrebbe sostenere che non sappiamo cosa sarebbe successo se le avessimo detto la verità. Questo è vero per qualunque scelta della vita. Nondimeno cerchiamo di fare del nostro meglio sulla base degli elementi conoscitivi a nostra disposizione in un momento dato, pur sapendo che la catena delle conseguenze delle nostre azioni potrebbe essere ben diversa dal previsto……
L’esperienza del ritiro urbano ha avuto su di me un forte impatto a livello emotivo.
Già in passato avevo partecipato a corsi di meditazione e di yoga, ma nessuno di questi ha mai avuto su di me un effetto analogo.
Mi sono trovato improvvisamente a contatto con emozioni che venivano in superficie, non soffocate da pensieri, ragionamenti e giudizi. Una vita emotiva intensa, a momenti spaventosa e a momenti molto piacevole che sembrava ormai morta, un lontano ricordo dell’infanzia che ho cercato per quanto mi è stato possibile, di osservare e di assaporare e di conoscere.
Grazie
Grazie a te per aver condiviso la tua esperienza, Giampaolo. Conosci la storia de Il giardino segreto? Un classico per ragazzi (almeno ai miei tempi..),che per qualche motivo mi torna in mente. Questo contatto diretto con la dimensione di citta (mente/cuore nel linguaggio buddhista) è come entrare in acqua, allora cominciano ad avere senso (o un nuovo, più personale senso) le indicazioni del Buddha e tutto il resto, inclusi i ritiri.
In questi giorni ho cercato di fare un po’ di allenamento sull’utilizzo di un linguaggio più etico cercando di relazionarmi nell’Ambiente attraverso una parola che non fosse futile e che fosse più rilassata e gentile. Ho cercato di scegliere le parole con scrupolo, dandomi il tempo di sceglierle….e…..il risultato è sorprendente…la cosa è contagiosa, si propaga. Viene notato che c’è valore nelle parole, gentilezza e …l’interlocutore si ben dispone e si adegua. Certe volte però devo ammettere che mi sono sentita un po’ una ‘marziana’, non sopportavo la parola futile e noiosa degli altri, il fatto di perdere tempo …a questo seguiva il rimprovero di considerarsi un essere un po’ ‘speciale’. Come si tengono a bada la presunzione e la colpa?
Nell’insegnamento del Buddha la presunzione, cioè il sentirsi superiore, inferiore o pari agli altri, è uno degli ultimi ‘vincoli’ o impedimenti al completo risveglio, quindi qualcosa che verosimilmente avremo modo di contemplare più di una volta… Più che tenerla a bada, si tratta di riconoscerla e comprenderla, e il fatto che tu abbia notato che è comunque stress e sofferenza e ti chieda come uscirne è un primo passo importante (per molti è un ‘fatto’ obiettivo essere meglio o peggio di altri, non si discute nemmeno!). Il senso di colpa o imbarazzo nel provare o pensare certe cose è un sentimento occasionale generato da una non chiara comprensione e probabilmente da assunti morali o ideali ereditati, e nella misura in cui non diventa cronico e particolarmente invalidante non gli darei particolare importanza. Il motivo per cui la presunzione è così pervasiva e difficile da abbandonare è che il paragone (più o meno inconscio) con l’altro è un’operazione mentale (associata a un sentimento specifico: sentirsi ‘speciali’, ‘da meno’, ‘migliori’, ‘normali’, ‘strani’, eccetera) che genera, e al tempo stesso emerge da, un senso di identità, un ‘io sono’ questo o quello, basato sull’appropriazione e identificazione con dettagli dell’esperienza psicofisica (stati fisici o mentali, idee, sentimenti, ricordi, desideri ecc.) visti e vissuti come assoluti, stabili, personali, fonte di qualche soddisfazione o sicurezza. Quindi ogni momento di ‘presunzione’ è un momento in cui funziona automaticamente l’ignoranza, ossia il non vedere chiaramente la natura relativa, insoddisfacente, incostante, impersonale e contingente di tutte le esperienze soggettive. Vedere questo, invece, porta a lasciare la presa, a non identificarsi più con ciò che nasce e muore. Questa è la fine della sofferenza, secondo il Buddha. La prima cosa che facciamo nella nostra pratica, che è più a portata di mano, è stabilizzare l’attenzione nel momento presente e cercare per quanto possibile di restare presenti ai vari stati e moti dell’animo, notando come appaiono e scompaiono secondo certe condizioni, senza chiamarli ‘io’ o ‘mio’ e senza reagire approvando o disapprovando, ma osservando per apprendere quanto più possibile le cause e gli effetti di certi modi di vedere e di pensare, in quanto fenomeni in se e per se. L’addestramento etico, come quello della parola che hai cominciato a sperimentare, non è fine a se stesso ma è una buona palestra per attivare la consapevolezza meditativa, la concentrazione e la riflessione saggia sui fenomeni, in particolare quelli che danno origine a un senso di insoddisfazione o viceversa nutrono gioia e pace. Ad esempio, noti che la parola futile degli altri suscita impazienza o irritazione: immediatamente riconosci quel moto con consapevolezza, senza reagire o commentare, proprio come se osservassi il respiro sul cuscino di meditazione, lasci andare qualunque idea di prima o poi, osservi cosa accade e cosa lo tiene in piedi, in che modo svanisce. Disponibile a sentirlo fino in fondo, senza trarne conseguenze di alcun genere su te stessa o altri. E così per qualunque altra esperienza che incontri nel tuo addestramento, anche la piacevole sensazione/idea di attrarre gentilezza essendo più gentile. E’ qualcosa che vale la pena di trattenere? Con cui vale la pena di identificarsi? Come vedi è del tutto inaffidabile, perché appena cambia lo scenario siamo di nuovo insicuri e fuori centro. Dunque se approfondisci la pratica della consapevolezza, e l’insegnamento del Buddha al riguardo, questo darà un indirizzo all’impegno etico e lo renderà liberante e rafforzante, invece che fonte di dubbi.
Se non hai una buona traduzione italiana del Satipatthana Sutta (il Discorso del Buddha su come praticare la consapevolezza) puoi scaricare una bozza annotata da qui. Sui concetti a cui ho accennato puoi consultare in inglese l’indice del sito http://www.accesstoinsight.org alle voci samyojana, mana, sati (vincoli, presunzione, consapevolezza).
Oh, e un’altra annotazione utile a chi intraprende una pratica di consapevolezza con il suo correlato di attenzione al linguaggio e all’azione costruttivi: il Buddha sottolineava l’importanza di “associarsi ai saggi”, non “agli stolti”, nel senso di nutrire l’apprezzamento e la fiducia ricercando, notando ed emulando le buone qualità degli altri, non cercando di sopportare stoicamente discorsi futili o dannosi… non sempre possiamo scegliere l’ambiente in cui ci troviamo, ma possiamo sempre scegliere a cosa dare attenzione e cosa lasciar cadere. Se la consapevolezza in quel momento non è tanto forte da generare un campo neutro e non reattivo, possiamo sempre scegliere di dare attenzione a pensieri di equanimità (“ciascuno è responsabile delle proprie azioni”) o compassione (“mi prendo cura della sofferenza”). Nella mia esperienza, rafforzare la fiducia nelle proprie scelte etiche porta, nel tempo, a una maggiore tolleranza e serenità (se porta a una maggiore intolleranza, debbo chiedermi che tipo di etica ho in mente…). Viceversa, il relativismo porta spesso a confusione intellettuale e passività emotiva nei riguardi dell’ambiente, terreno fertile per l’insicurezza e l’intolleranza che l’accompagna.
POLVERE NEGLI OCCHI
L’episodio del Buddha che dubita di voler trasmettere la sua conoscenza e viene “convinto” da una divinità a farlo mi ha fornito stimolo per una riflessione che mi riguarda personalmente, ovviamente in una dimensione molto ma molto più limitata di quella di Gautama.
Provengo dal mondo dello yoga, che pratico da decenni; e lo trasmetto anche volentieri. Per diversi anni l’ho fatto anche con una certa continuità, ma ultimamente ho faticato molto a trovare ambienti, persone, situazioni da me reputate consone o adatte. Lo yoga ha sofferto, a partire dalla New Age negli anni ’90, una certa volgarizzazione, prezzo che ha dovuto pagare per una crescente diffusione e popolarità. Detto molto sinteticamente, fatta eccezione com’è naturale per tutta una serie di scuole e di centri seri e legati alla tradizione (o meglio alle tradizioni) autentiche dello yoga, questa antichissima disciplina è stata in molti contesti ridotta a una ginnastica più o meno dolce, più o meno dinamica, più o meno deformata e stravolta, e soprattutto disconnessa dalla sua dimensione unitaria di corpo-mente-spirito che ne costituisce il fondamento irrinunciabile.
Poiché non intendo volgarizzare o distorcere o ridurre la mia trasmissione dello yoga, ne consegue che mi è diventato sempre più difficile trovare persone che abbiano voglia di affrontare lo yoga in modo serio e approfondito, mettendo in gioco sé stessi nella triplice dimensione corpo-mente-spirito con una certa continuità e serietà.
Alcuni giorni fa mi è venuto questo pensiero: perché non rivolgermi nuovamente al Comune di Torino, per il quale avevo insegnato yoga una decina di anni fa e che ha dei gruppi già formati? Ma il secondo pensiero è stato: e a che cosa serve, dal momento che la gente che frequenta quel tipo di corsi è interessata soltanto a rilassarsi un po’, a sciogliere qualche muscolo o far andare via un po’ di cellulite? No, lasciamo stare. Già provato. No, grazie.
E’ a questo punto che entra in gioco la “polvere negli occhi”. Dopo aver sentito l’aneddoto relativo al Buddha raccontato da Letizia, mi è arrivato un terzo pensiero: e se tra quelli che frequentano i corsi del Comune ci fosse qualcuno con appena un po’ di polvere negli occhi? Magari soltanto uno su dieci. Ne varrebbe sempre la pena.
Ora, se nel mio piccolo contesto negli ultimi tempi sono stato attraversato da questo dubbio, quello di Gautama era della stessa natura ma elevato all’ennesima potenza dal punto di vista dell’impatto. Egli pensava giustamente che una conoscenza così profonda come quella da lui acquisita non sarebbe stata compresa, ma probabilmente intuiva anche che se invece fosse stata compresa, avrebbe cambiato il mondo, e forse non era sicuro che fosse il caso di farlo: tant’è che interviene addirittura una divinità a convincerlo, e se così non fosse stato non saremmo oggi qui a parlarne, né sarebbe esistito il Buddhismo. Una conseguenza gigantesca, dunque. Ma poiché ciò che è vero per il grande vale anche per il piccolo, sia pure in scala ridotta, l’insegnamento che ho tratto (e che a parer mio vale per tutti, insegnanti e non), è che, dato per assodato che come il Buddha non vogliamo predicare né imporre i nostri valori e le nostre conoscenze a nessuno, se però sentiamo giusto e importante promuoverle ed espanderle, la cosa più importante è porre attenzione agli occhi di chi ci sta davanti: se ha poca polvere ci sarà grato se lo aiuteremo a togliersela. Se invece ne ha molta, non è compito nostro: non rientra nelle nostre possibilità.
Riflettere sul Linguaggio etico è diventato – con i drammatici fatti di Parigi – ancora più urgente… Qualcuno, anche nell’arena pubblica di FB, ricorda che la libertà (di movimento, di parola, di scrittura, di satira) non può essere senza limiti ma va coniugata con la responsabilità; e ricorda che la libertà “alla francese” richiede uguaglianza e fraternità. “Richiede limiti morali, per senso di responsabilità, per considerazione delle conseguenze sugli altri con i quali conviviamo” (Sergio Manghi, blog Il terzo incluso). Il paragrafo conclusivo dell’Abhaya Sutta, con parole scarne ed efficaci, ci mostra a quali condizioni questa nostra libertà (di parola) ci permette di avere a cuore il bene degli altri.
Un supplemento alle letture per il seminario su Linguaggio etico: l’Abhaya Sutta del Majjhima Nikaya (link al pdf da questo articolo). Gotama da’ un esempio di retta parola rispondendo a una domanda a trabocchetto sulla retta parola!
Sono aperti i commenti per domande, riflessioni ed esperienze sul ritiro urbano di Torino… sui testi sulla retta parola … sulla pratica del linguaggio etico … se si avvia una conversazione significativa fra un paio di settimane potrete commentare, volendo, anche alla pagina dedicata al Laboratorio di Mestre (archivio ottobre) sugli stessi temi….
a proposito dell’Abhaya Sutta , mi pare che tra i vari casi elencati dal Buddha ne manchi uno che si presenta spesso nella vita quotidiana. Quando qualcosa non è vero, o non è del tutto vero, ma può risultare utile e di beneficio dirlo in quel momento a quella persona, cosa si deve fare? Si dà la precedenza alla verità o all’ utilità?
Come osserva Thanissaro http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/mn/mn.058.than.html il caso in cui un’affermazione non vera possa essere benefica o utile non è neppure preso in considerazione. Il Tathagata non la pronuncia. Forse potresti dare un esempio dei casi che hai in mente, così riflettiamo. A volte abbiamo la presunzione di sapere cosa è utile per un altro. Inoltre, il Buddha chiarisce in altri discorsi che non sempre è utile dire quello che si pensa (o si è visto ecc.) quindi non è “la verità a tutti i costi”. Il criterio di utile o vantaggioso è relativo alle condizioni kusala o akusala che incoraggia o scoraggia in chi parla, in primo luogo. Che dite?