All’indomani degli eventi di Parigi cerco di ascoltare e leggere le notizie e i commenti sui media, e ascoltare i pensieri e le emozioni che passano nella mente mia e delle persone che mi capita di incontrare. Non tanto per sapere, per capire, per farmi un’opinione, per partecipare, ma per navigare la superficie densa delle conoscenze, delle opinioni e delle reazioni preformate, collettivamente condivise, di numero finito, verso un possibile squarcio di silenzio, di sospensione, di non-comprensione, di spiazzamento – acque più chiare e fonde, densità non di contenuti ma di presenza, da cui talvolta emerge un sentimento o un pensiero nuovo. O da cui sia possibile sostenere e guardare con occhi nuovi, da un altro punto di vista, antichi sentimenti che la cultura e il condizionamento psicologico ci spingono a evitare o combattere, perché si trasformino in qualcosa di più sano e maturo che sostiene e nutre la vita, invece di mascherarla o impoverirla.

E’ la sfida di ogni disciplina contemplativa. Un’amica che pratica il Dhamma mi diceva come la notizia dell’attacco terroristico (con il corredo angoscioso degli scenari politici e sociali che evoca per tutti noi) l’abbia raggiunta nel relativo ‘isolamento’ di un ritiro di gruppo, catalizzando un’apertura di cuore inattesa, un più completo e spontaneo abbandono al calore, al flusso della compassione e della benevolenza inclusiva che si cercava di coltivare nella seduta fra le increspature e frammentazioni della mente distratta, incostante, svogliata o irrequieta. Il mio pensiero, ascoltando, è stato: le bombe spazzano via vite e speranza, ma anche preoccupazioni futili e barriere egocentriche.

Poteva succedere esattamente l’opposto: una goccia di realtà dissolve come un acido la pellicola protettiva della compiacenza e della falsa sicurezza, irridendo alla patetica ‘serenità’ del proprio angoletto ‘meditativo’: un guscio di noce in mezzo alle onde della reattività (e anche la piattezza della mente rattrappita e vacua è, a modo suo, uno tsunami) . Ma il guscio di noce travolto non è un gran male: almeno invita all’umiltà, e a riconsiderare la portata e la direzione dell’impegno richiesto dall’insegnamento e dalla disciplina del Buddha, lasciando cadere qualche idealizzazione e le semplificazioni di moda.

C’è una violenza nascosta, nell’apparente invulnerabilità della fede, che nel settarismo e nel fanatismo emerge in tutta la sua crudezza letterale , ma che vive simbioticamente in ogni forma di pratica o ideologia spirituale (in senso lato), dunque anche in quella buddhista, per quanto modernamente o scientificamente rivisitata, o coniugata con fedi occidentali.  Come uno di quegli innocui virus o batteri residenti di cui ignoriamo l’esistenza finché, in circostanze particolari o abbassandosi le difese immunitarie, non prolifera a dismisura danneggiando l’organismo.

Ho trovato molto utile e stimolante leggere questa riflessione di Marco Belpoliti che vi segnalo anche perché interrogandosi sui meccanismi psicologici che possono essere alla base di atti di violenza a sfondo ideologico e religioso va oltre l’idea del ‘mostro’ o della specificità islamica e, pur non colmandolo, invita a gettare un ponte sull’abisso della reciproca incomunicabilità http://www.doppiozero.com/materiali/commenti/cosa-c-e-nella-testa-degli-assassini-di-parigi

Cito la conclusione del suo articolo, con cui mi sento in consonanza, e la giro come domanda a quelli di voi che praticano il Dhamma, e a cui capita di leggere questo blog: “Non ho risposte davanti a questo interrogativo: non so cosa c’è nella loro testa. Non ho nessuna rassicurazione e nessuna consolazione. Posso solo trascrivere un’osservazione di Adam Phillips … ‘I fanatici sono persone che hanno dovuto aspettare troppo a lungo qualcosa che potrebbe non esistere’. Per questo uccidono, per questa non esistenza. Cosa possiamo opporre noi occidentali a tutto questo? Un’altra non esistenza? Difficile dirlo”.

Mi tornano alla mente le parole del mio insegnante, Ajahn Sumedho, sulla violenza dell’ideale, del ‘come dovrebbe essere’ che aliena dal ‘come è’  e lo fa vivere come irreparabilmente insoddisfacente, sbagliato, perfino persecutorio, e che rende intolleranti verso noi stessi e verso gli altri. L’ideale di pace, di sicurezza o di perfezione che oscura il potenziale di cambiamento e di liberazione insito nel cuore stesso della sofferenza, dell’incertezza, del non controllo, quando la si può abitare con intelligenza e con amore. Ci invitava a considerare come la meditazione o l’adesione a certi principi del Dhamma  può essere animata da una tensione, spesso inconscia, verso un Paradiso, un premio o una risoluzione che ci attende se facciamo la cosa giusta, la pratica giusta, quasi un rituale che può imporre sforzi e sacrifici, e che spesso richiede l’accettazione acritica dell’autorità di qualcuno che sembra averne le chiavi. La vita, o la pratica, come preparazione o attesa di ‘qualcosa’, che non sappiamo se esiste, ma in cui abbiamo disperatamente bisogno di credere.

Il Buddha parlava del nibbana, della pace del non attaccamento e della non identificazione, come ‘l’altra sponda’, o ‘la fine del mondo’, ma non lo prometteva come l’appagamento finale dei nostri desideri irrealistici o una condizione superumana destinata agli eletti credenti. Piuttosto, lo definiva come un lasciare la presa, abbandonare il desiderio e l’illusione che lo accompagna, senza soffocarlo o distruggerlo, qualcosa che si realizza direttamente in questa vita e che per essere compreso e apprezzato richiede, spesso, un processo graduale di maturazione. La maturità di vedere, e tollerare, le cose ‘così come sono’, incerte e non appaganti, senza rispondere con la violenza e il rifiuto.

Facile parlarne in teoria, come è facile parlare degli ideali occidentali di democrazia, tolleranza della complessità e della diversità, libertà individuale, non dogmatismo, rispondere alla violenza con la ragione, accettare l’imperfezione e vulnerabilità umana, eccetera.  A volte dimentichiamo che ci vogliono reali risorse interiori e condizioni esterne di supporto per essere veramente in grado di  vivere questi valori, come ci vogliono i denti per masticare il pane e un apparato sano per digerirlo. Non basta convincersi intellettualmente o imporre a sé o ad altri il rispetto di certi ideali: la rabbia, la disperazione, la paura, il bisogno di certezza e sicurezza di una mente fragile e mal nutrita, l’arroganza, la confusione del cambiamento, la realtà della violenza e del male, devono essere incontrati e compresi. Impresa non facile. Qualcuno di noi, forse molti, sembra non farcela. La condizione umana è un pane forse nutriente, ma per molti è assai duro, e amaro, e indigeribile. Lo è anche per me, in qualche circostanza. Se lo ricordo, ‘depongo il bastone e la spada, dimorando sollecito del bene di tutti’, come si dice nei Sutta parlando della compassione. Non è nulla, in un mare in tempesta. Ma, l’alternativa?