Di seguito presento alcuni luoghi relativi alla figura del sappurisa nei Sutta del canone pali, corredati da qualche riga di commento. Il termine è composto da purisa (uomo, ma qui vale per entrambi i sessi) e dal prefisso sat che si può rendere con buono o degno. Qualcosa di paragonabile al Giusto della tradizione biblica, o al kalos-kai-agathos, il Bello-e-Buono della filosofia greca, ma con una connotazione specifica. E’ l’ideale praticante del Dhamma e un buon membro della Comunità, anche se non necessariamente un liberato (arhat). Il suo opposto (asappurisa) è la persona meschina, che si impegna nella pratica e può anche raggiungere notevoli traguardi, ma è confinata dal proprio orizzonte autoreferenziale.
Nei passi che seguono, il sappurisa (come il suo opposto) è tipicamente un bhikkhu, ma il suo comportamento sottintende valori e virtù non specificamente monastici e/o maschili. E neppure genericamente morali, come i cinque precetti fondati sul non nuocere che sono chiaramente una base, ma non esauriscono e non caratterizzano il messaggio del Buddha riguardo al tipo di sviluppo umano ottimale che il suo insegnamento si propone di favorire. Al di là delle definizioni del risveglio o della liberazione a volte un po’ tecniche e astratte che troviamo nei testi, in che modo, pragmaticamente, possiamo riconoscere in noi stessi i sintomi di quella libertà seminale che ci permette di coltivare la pratica con onestà e integrità? E libertà da cosa, esattamente? E per cosa? (sullo stesso tema vedi qui)
“Una persona dotata di queste quattro qualità può essere definita una persona meschina (asappurisa) 1) non richiesta, espone le mancanze degli altri, a maggior ragione quando richiesta; le espone tutte, in dettaglio, senza omissioni e volentieri 2) qualora richiesta non espone le buone qualità degli altri, a maggior ragione quando non richiesta; se le espone lo fa parzialmente, genericamente, con omissioni e malvolentieri 3) se non richiesta non espone le proprie mancanze … ma qualora richiesta lo fa sorvolando sui dettagli … e malvolentieri 4) espone le proprie buone qualità … tutte, in dettaglio, senza omissioni e volentieri”. (Anguttara Nikaya 4.73 Sappurisa Sutta – per una versione inglese dell’intero testo vedi qui)
La persona degna, la brava persona, è descritta invece come l’esatto contrario. In sintesi: il sappurisa non si compiace di mettere in luce le proprie buone qualità, ma non esita ad ammettere apertamente le proprie mancanze; non si compiace di denunciare le mancanze dell’altro, ma non esita a riconoscere apertamente le sue buone qualità. In un altro passo dell’Anguttara Nikāya (AN 2.31-32 Kataññu Sutta vedi qui) le virtù che lo caratterizzano sono la gratitudine e la riconoscenza, cioè apprezza ciò che ha ricevuto e desidera ricambiare.
Questo modello acquista particolare significato per il Sangha dei rinuncianti, la cui vita comunitaria era idealmente improntata al rispetto e all’amorevolezza reciproci, al di là delle gerarchie e dello status sociale che l’individuo aveva in precedenza. Di fronte alle mancanze proprie o dell’altro il Vinaya (disciplina) prescrive un atteggiamento interiore e un codice di condotta individuale e del gruppo che hanno lo scopo di contenere e trasformare gli impulsi alla condanna, al disprezzo, all’umiliazione, alla punizione. In altre parole: trasformare la crudeltà con la compassione e la saggezza. Riconoscere le proprie e altrui mancanze con sobrietà e quando si rende necessario, al solo scopo di “correggersi o astenersi in futuro”.
Altrove (Majjhima Nikāya 113), la persona meschina è rappresentata come un membro del Sangha che si sente superiore agli altri per i seguenti motivi: proviene da una famiglia di alto rango; da una famiglia facoltosa; è noto e influente; riceve in dono dai laici cibo, medicine, alloggio e vesti; è erudito; esperto nel Vinaya; insegna il Dhamma; si dedica alle 9 pratiche ascetiche (dhutanga) permesse dal Buddha quali vivere da solo nella foresta, mangiare un pasto al giorno, vestire con stoffa gettata via, ecc.; ottiene i 4 jhāna e i successivi 4 stati immateriali. Lo schema del suo pensiero è in ogni caso: Io… invece questi altri monaci non …. Ad esempio: “‘Io ottengo il primo jhāna [e il resto], ma questi altri monaci non sono capaci di ottenere il primo jhāna’: pensando così esalta se stesso e sminuisce gli altri. Questa si definisce una persona meschina (asappurisa)”.
“Invece, una persona degna considera: ‘Non è grazie al fatto di provenire da una famiglia di rango che si pone fine all’avidità … all’avversione … all’illusione. Anche se un monaco non proviene da una famiglia di rango, se costui – praticando il Dhamma in linea con il Dhamma e praticandolo bene – è qualcuno che segue il Dhamma, dev’essere onorato per questo e lodato per questo’. Così, mettendo al primo posto nient’altro che la pratica, non si esalta per il fatto di appartenere a una famiglia di rango né disprezza gli altri. Questo è il carattere di una persona degna”. [Lo schema si ripete identico fino al primo jhāna]. “Ma un sappurisa considera: ‘Il Maestro ha parlato di non identificazione (atammayatā) anche nel caso del primo jhāna [e degli altri stati di concentrazione profonda] perché, in qualunque modo lo si concepisca, diventa già qualcos’altro’. Perciò, mettendo al primo posto la non identificazione, non esalta se stesso per il fatto di ottenere il primo jhāna [e il resto] né disprezza gli altri”.
Il Sutta del MN termina con la brava persona che, trascesi anche gli stati di concentrazione più raffinati, vede con discernimento e ottiene la liberazione (l’esaurimento degli āsava, o influssi che condizionano la percezione). “Questo è un monaco che non costruisce nulla, non costruisce in nulla, non costruisce in nessun modo”.
Centrali nel ritratto della brava persona o sappurisa sono virtù essenzialmente relazionali e un’onestà di fondo che non soltanto rendono possibile la vita di comunità, ma prefigurano le realizzazioni spirituali più alte: la brava persona non cede all’invidia, alla competizione, all’orgoglio; non esalta o giustifica se stessa disprezzando l’altro. E sono appunto tratti come la modestia, la non arroganza anche nel riprendere l’altro, l’essere privo di vanità, il non paragonarsi agli altri in termini di superiore, inferiore o uguale i segni distintivi dell’arhat, la persona pienamente liberata che ha superato il vincolo chiamato māna (la presunzione ‘io sono’).
Non un ideale di irragiungibile distacco e perfezione, né l’abnegazione della compassione eroica: ciò che viene richiesto per praticare il Dhamma secondo il Dhamma è una semplice dignità, verrebbe da dire una decenza, forse non proprio comuni, ma certamente possibili (e tanto necessarie) nel nostro tempo, nella nostra società, nella nostra vita di tutti i giorni.
Cara Letizia, grazie di quest’articolo. È arrivato proprio un momento in cui sto incontrando alcune mie qualità “meschine” è la cosa, anche se per certi versi riesco a considerarla utile, mi fa molto soffrire. Questa lettura mi ha un po’ acquietato.
Spero che tu stia bene e ti auguro tante buone cose.
Paolo
Grazie mille Letizia.
I tuoi articoli sono sempre molto interessanti ed istruttivi.
Un grazie in particolare anche al lavoro che hai svolto nel tradurre il libro Mindfulness di Joseph Goldstein.
L’ho letto in lingua originale quando uscì circa 2 anni fa, ma proprio ieri in libreria quando ho aperto il libro ed ho visto che la traduzione era opera tua, l’ho subito acquistato.
Saluti
Alessio
Sì il libro di Goldstein è utile. In appendice c’è la traduzione di Analayo del Satipatthana Sutta, che mi è parso importante mettere a disposizione del pubblico italiano. Buone cose
Grazie Letizia! Molto bello il post …nella mia esperienza mi sembra di vedere che gli atteggiamenti asappurisa sono usati quotidianamente per “farsi strada” nel mondo ….. qualora un “Sappurisa” fosse vittima di questi comportamenti come si comporterebbe per non essere vittima? … e come si potrebbe difendere qualora nasca nel suo cuore un desiderio di vendetta? …….
Credo che ciascuna circostanza richieda una risposta specifica, un comportamento creativo, non un modello a priori. Il Dhamma propone una via per coltivare la consapevolezza, il discernimento e la fiducia necessari a riconoscere dentro di sé anche l’ombra (il sentirsi vittima, il rancore e il desiderio di vendetta, ecc.) lasciando andare l’impulso a sbarazzarsi di qualcosa dentro di sé o a voler diventare qualcosa. Così è possibile imparare circa la situazione e il modo in cui ne diventiamo ‘vittima’, invece di credere ciecamente ai nostri pensieri, emozioni, percezioni condizionati dal passato. Il Buddha chiariva che una mano con la pelle sana può maneggiare il veleno senza pericolo; la domanda diventa dunque: come incontrare le ferite, e cosa aiuta a sanarle? Una delle risposte che troviamo nei Sutta è apprezzare e coltivare la virtù, il bene, riflettere su quali valori vogliamo esprimere nella vita e nella società invece di conformarci passivamente alle tendenze del gruppo. E trarre gioia e forza dalla propria onestà. Il rancore deriva, nella mia esperienza, da una non chiarezza circa chi si è e cosa si vuole.
Come diceva Paolo: il vedere i propri comportamenti non saggi desta all’inizio tristezza o sgomento, ma il rifugio è nella consapevolezza: ciò che vedo chiaramente perde il potere di nuocere e di nuocermi. Invece reprimere o negare la vendetta o l’invidia aumenta la possibilità che io la metta in atto.
Grazie Letizia. È stato molto istruttivo e……molto atteso il seminario_ritiro a Tossignano. Spero tu stia bene Teresa Capaldi
Grazie a te Teresa. Io sto bene e sono contenta di come sono andate le cose a Tossignano. A breve un post con gli appunti e gli audio dal ritiro. Così si può aprire una conversazione lì e avere un feedback che ci sarà molto utile per le prossime iniziative. Buone cose.