Il Giorno della Memoria è celebrato ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
C’è un vistoso paradosso quest’anno dietro il giorno della memoria: la data corre un pesante rischio di assuefazione e di ritualizzazione retorica proprio mentre i disvalori che si proponeva di combattere trovano nel nostro discorso pubblico uno spazio che non avevano mai avuto.
Marino Sinibaldi, Il dovere della memoria nel 2018, leggi l’articolo su Internazionale
Credo sia essenziale, per la salute nostra e della società di domani, da un lato riconoscere l’unicità della shoah e mantenerne nitida la percezione nel tessuto della nostra coscienza storica, politica e morale di italiani ed europei. Dall’altro, generare connessioni significative fra passato e presente che ci aiutino a riconoscere e denunciare i disvalori come tali, e a cogliere per tempo i segni di dinamiche sociali, modalità di pensiero, slogan e orientamenti politici che fanno rientrare dalla finestra ciò che speravamo di aver messo alla porta. Questo duplice intento mi sembra ben espresso dallo schietto antifascismo del nostro Presidente Mattarella e dalla recente nomina di Liliana Segre come senatrice a vita.
Vi segnalo qui una puntata della trasmissione Passato e Presente, su Rai Storia (occorre registrarsi gratuitamente al sito RAI per vederla) Nell’estate del 1939 le norme antiebraiche sono ormai entrate nell’ordinamento giuridico di molti paesi europei, oltre la Germania: l’Ungheria, la Romania, la Slovacchia, la Polonia, l’Italia, l’Austria annessa al Terzo Reich. Per centinaia di migliaia di ebrei l’unica via di salvezza, malgrado le incognite e le difficoltà di un trasferimento all’estero, è abbandonare il proprio paese d’origine.
Il conduttore Paolo Mieli e gli storici suoi ospiti, coadiuvati da belle immagini di repertorio, raccontano le storie di chi tentò di emigrare o di mettere in salvo altri ebrei in fuga dalle persecuzioni razziali. Sono storie che hanno echi profondi nel nostro presente. Sono Gustav Schroeder, capitano del Transatlantico St. Louis, che riesce a salvare i 937 passeggeri, per la maggior parte ebrei, respinti dagli Stati Uniti e dal Canada; l’allenatore di calcio Arpad Weisz, ungherese, che trova riparo in Italia ma poi, costretto a trasferirsi in Olanda dopo la promulgazione delle leggi razziali, viene deportato ad Auschwitz; Oskar Tanzer, ebreo tedesco che si stabilisce in Italia e che, dopo il varo delle norme antisemite, sarà aiutato a mettersi in salvo da Don Primo Mazzolari; Paul Grninger, capo della polizia del cantone svizzero di San Gallo, che dopo la chiusura delle frontiere aiuta oltre tremila ebrei ad oltrepassare il confine, un “dovere umano”, come lo definisce egli stesso, che gli causerà la perdita del lavoro e lo ridurrà in povertà.
I nomi, i volti, le circostanze precise e puntuali. Mi fa piacere condividerli qui, perché rivivano nel nostro cuore e nei nostri pensieri e ci insegnino qualcosa su noi stessi e il nostro presente.
Grazie Letizia. Qualche giorno fa ho visto un film ambientato tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 in Germania, intitolato Il labirinto del silenzio. Per chi non l’ha visto, molto brevemente, narra di un giovane procuratore che cerca di far luce sulla presenza di alcune persone che avevano fatto parte delle SS e che, nonostante fosse proibito dalle allora leggi, prestavano servizio presso pubbliche amministrazioni. Il tema centrale del film era l’oblio, il non voler ricordare, il non voler vedere. Ad un certo punto del film un altro magistrato, contrario all’indagine portata avanti dal procuratore, avanza come motivazione per questa sua contrarietà il fatto che se si fosse riuscito a fare un processo a coloro che avevano collaborato ai crimini nazisti, molti figli si sarebbero ritrovati con i padri in galera! Il procuratore risponde a questa difesa dicendo che lui vorrebbe che le persone “vedessero”. Mi ha colpito molto questa frase perchè mi riporta, mi parla, di una partecipazione silenziosa o apparentemente inconsapevole, a quanto accade attorno a noi. Ed alle volte mi sembra, senza volermi distinguere dagli altri, che non vogliamo vedere, che non voglio vedere, magari accampando la ragione del non sapere cosa fare … Poi, però, mi accorgo che anche un articolo sul blog come quello che hai appena postato è un modo per ricordare ed aiutare gli altri a vedere un po’ di più.
Grazie
Paolo
Cercherò di vedere il film, Paolo, e grazie per questo spunto di riflessione.
“Accampando la ragione del non saper cosa fare…” Io credo che spesso questo blocca la compassione e la capacità e la volontà di vedere e sentire ciò che è doloroso. C’è come un’ossessione a dover aggiustare e risolvere, e non si tiene conto dei propri limiti e del fatto che esiste anche l’impotenza, che le condizioni sono complesse e molto spesso più grandi di noi. Forse il senso di colpa e di inadeguatezza, che nasce da una visione non realistica del mondo e di noi stessi è uno dei fattori che chiude gli occhi.
Grazie Letizia per aver ricordato quei tragici eventi, aiutando tutti noi a non dimenticare, per non ripetere i terribili errori del passato