L’antisemita ha paura di scoprire che il mondo è fatto male: perché allora bisognerebbe inventare, modificare, e l’uomo si ritroverebbe padrone dei propri destini, provvisto di una responsabilità angosciosa e infinita. Perciò localizza nell’ebreo tutto il male dell’universo. […] È un uomo che ha paura. Non degli ebrei, certamente: ma di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento della società e del mondo […] È un codardo che non vuol confessarsi la sua viltà; un assassino che rimuove e censura la sua tendenza al delitto senza poterla frenare e che pertanto non osa uccidere altro che in effigie o nascosto dall’anonimato di una folla: uno scontento che non osa rivoltarsi per paura della sua rivolta. […] Sceglie di non acquistare niente, di non meritare niente, ma che tutto gli sia dovuto per nascita – e non è nobile. Sceglie infine che il Bene sia bell’e fatto, fuori discussione, intoccabile: non osa guardarlo per timore d’essere indotto a contestarlo e a cercarne un altro. L’ebreo è qui solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro, o del giallo. La sua esistenza permette semplicemente all’antisemita di soffocare sul nascere ogni angoscia persuadendosi che il suo posto è stato da sempre segnato nel mondo, che lo attende, e che egli ha, per tradizione, il diritto d’occuparlo. L’antisemitismo, in una parola, è la paura di fronte alla condizione umana. (Jean-Paul Sartre, Réflexions sur la question iuive)
Al di là di quanto l’analisi sartriana riesca a gettar luce sulla ‘questione ebraica’ nelle sue ramificazioni storiche, ho voluto condividere questo brano perché nel Giorno della Memoria quest’accorata denuncia del ’46 suona penosamente attuale. E anche perché tocca un punto sensibile in chi, per scelta o necessità, vive nel mondo con un cuore o uno sguardo autenticamente contemplativo. A tu per tu con quella “paura di fronte alla condizione umana” che evitata e rimossa genera mostri, ma abbracciata e compresa, senza alzare i muri del pregiudizio e delle emozioni preconfezionate, porta frutti di amore e intelligenza, coraggio e liberazione. Cosa ha da offrire un ‘meditante’, alla società, se non un cuore reso più umile, e meno nocivo, dall’incontro quotidiano e spassionato con ciò che tutti tendiamo a fuggire o respingere: se stesso, la sua coscienza, la sua libertà, i suoi istinti, le sue responsabilità, la solitudine, il cambiamento della società e del mondo?
A patto però di non fare dell’antisemita e dei suoi parenti e reincarnazioni (il razzista, sovranista, xenofobo, omofobo ….) una categoria antropologica, o un bersaglio di comodo per consolarsi della propria impotenza e sentirsi buoni a buon mercato. Così facendo (e lo si fa molto, di questi tempi) non si smaschera affatto l’illusione di fondo, non si accetta che “il mondo è fatto male” (e quindi: rimbocchiamoci le maniche, non aspettiamoci miracoli o gratificazioni, smettiamo di dare colpe a destra e a manca, restiamo sani, facciamo il bene, non mettiamolo su un piedistallo, generiamo e promuoviamo dinamiche sociali virtuose, denunciando quelle violente e nocive, invece di contrapporci in schieramenti pregiudiziali). D’altra parte, l'”antisemita” sartriano si riaffaccia, in spirito se non alla lettera, nel ritratto dell’Italiano dell’ultimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, in particolare nel capitolo intitolato sinistramente Le radici sociali di un sovranismo psichico: dopo il rancore, la cattiveria. Il “sovranismo psichico” è qui definito come “una reazione pre-politica con profonde radici sociali … che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”. Paroloni, per dire quel disagio che tutti sentiamo direttamente o indirettamente e che ci induce a guardare con sospetto il nostro prossimo.
Non che l’antisemitismo vero, nella sua letterale bruttezza, sia estinto o resti in vigore solo come metafora: per restare a casa nostra, l’Osservatorio del CDEC documenta per l’anno appena trascorso 181 casi di aggressioni, prevaricazioni o manifestazioni di intolleranza contro persone, simboli o luoghi in quanto ebrei o legati all’identità ebraica, molti perpetrati sul web, ma non solo, con un netto crescendo rispetto agli anni precedenti. Ma la mappa dell’intolleranza e del pregiudizio si estende oggi come allora anche ad altri soggetti: chiunque perché più povero, più debole, scomodo o semplicemente diverso può divenire un bersaglio. La coscienza dell’inclusione e della ricchezza nella diversità cresce, e di pari passo cresce la reazione. Oggi decine di barriere dividono popoli e paesi. Sono state innalzate per ostacolare flussi migratori, per creare confini o per difenderli. In gran parte sono successive al 1989 (anno della caduta del Muro di Berlino).
Che dire, che fare? Bollare un intero popolo, un intero Paese, prendersela coi governi, con la crisi economica, con un gruppo o tipologia di persone sartrianamente in fuga dall’angoscia esistenziale? Prendere ispirazione dalla Storia e dalle storie per trovare le risposte e i percorsi possibili è uno dei valori che io sento legati al Giorno della Memoria.
Un percorso che ho trovato esemplare e su cui è stato bello per me riflettere in questi giorni è quello raccontato nel film Il labirinto del silenzio (2014), disponibile ancora per poco su RaiPlay (per vederlo bisogna registrarsi gratuitamente al sito http://raiplay.it/). Il film si ispira alle inchieste del giudice Fritz Bauer che portarono nel 1963 al processo di Francoforte (o Secondo Processo di Auschwitz) contro 22 imputati per crimini commessi fra il 1940 e il 1945 nel campo di concentramento. Nel 1958 in Germania nessuno vuole sapere la verità e nessuno riesce a dirla, mentre l’establishment cerca di coprire personaggi influenti compromessi col nazismo. Il protagonista è un giovane procuratore, collaboratore di Bauer, che rischia di smarrirsi nel labirinto del silenzio e dell’angoscia ma si ritrova, dando voce alle vittime e scoprendo che il male è molto più vicino di quanto ognuno fosse pronto a credere, ma può essere vinto dall’amore e dalla forza della verità.
Carissima Letizia, grazie mille per questo post che cita Sartre in un brano che non conoscevo e che penso di utilizzare a scuola coi miei ragazzi di quinta. Ogni anno nell’ultimo anno di corso, e non tanto in occasione della Giornata della memoria, ma all’interno del programma di storia, affronto le tre matrici dell’antisemitismo (quella cristiana con l’accusa di deicidio, quella socialista legata all’anticapitalismo finanziario e quella liberale con l’accusa della doppia identità che rende gli ebrei inaffidabili dal punto di vista nazionale) che per i ragazzi sono sempre una novità e un argomento che li colpisce. Affrontare l’antisemitismo nell’ottica di Sartre mi permetterebbe di inserirlo all’interno di un più generale atteggiamento discriminatorio che scaturisce dall’IGNORANZA, l’ignoranza di sé e della realtà che si affida alla paura per trovare soluzione all’angoscia, appunto.
L’insegnamento del Buddha mi ha offerto in questi anni alcuni strumenti per superare un po’ quest’ignoranza che alimenta la paura e sarebbe così utile anche alle giovani generazioni contemporanee, sempre più disorientate e abbandonate!
Sono proprio necessari strumenti di decodifica della Realtà, lenti chiare per osservare le dinamiche dentro e fuori di noi, con dei “nomi” che permettano di riconoscerle, ma la velocità che contraddistingue il nostro Tempo rende difficile l’Attenzione e incrementa, invece la Distrazione. Lo vedo molto bene nel mio lavoro, dove i ragazzi hanno, negli ultimi dieci anni, ridotto notevolmente la loro capacità di attenzione, per cui lo stato d’ansia che ne deriva domina i più sensibili e indurisce i più superficiali. Urge il recupero del valore della riflessione, poiché è stata data, e si continua ahimè a dare, troppa enfasi sull’azione.
Grazie, quindi, Letizia, per gli spunti, che utilizzerò certamente.
Roberta
Grazie davvero Roberta per il tuo bel commento. E per il tuo impegno nella scuola e con i ragazzi. Non dev’essere facile accompagnarli nella crescita con tutte le difficoltà che menzioni, ma il Dhamma può aiutarti a non farne motivo di stress e a essere autenticamente con loro.