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discernimento, esperienza, impermanenza, khandha, Laboratorio Mestre, percezione, satipatthana, vipassana
Questo post presenta una selezione di materiali tratti dal Laboratorio di studio e pratica del Dhamma tenutosi a Venezia Mestre ott.-nov. 2019: Percezione e discernimento nella pratica di visione profonda (vipassanā). Gli interventi dei partecipanti sono stati conservati nell’area dei COMMENTI, dove trovate anche traduzioni di articoli e testi.

Immagina un miraggio che luccica a mezzogiorno nella stagione calda … allo stesso modo … quale sostanza potrebbe esservi in una percezione? (Saṃyutta Nikāya 22.95)
Esplora la natura e il ruolo di saññā – la ‘percezione’ come processo di costruzione di segni e significati – nel contesto dei 5 khandhā (gruppi o aggregati) e nel percorso di sviluppo mentale volto a indebolire e infine neutralizzare le radici delle intenzioni e reazioni non salutari (avidità, avversione e illusione). Nella prospettiva dei Discorsi le distorsioni percettive di base della mente non evoluta vengono decostruite con l’applicazione di ‘percezioni correttive’ e dell’investigazione.
AUDIO
Percezione – le categorie di vipassanā (6 basi sensoriali, 5 gruppi, nome-forma e coscienza)
Percezione – concetto e significato affettivo
Percezione – nimitta (segno), reattività e custodia dei sensi
Percezione – pubblicità, propaganda: la natura ingannevole di saññā
Percezione – papañca (proliferazione concettuale)
Percezione – papañca (2) Madhupiṇḍika Sutta (MN 18)
Percezione – l’istruzione a Bahiya
Sulle ‘percezioni correttive’ o percezioni da coltivare (in particolare la percezione dell’impermanenza o incostanza) vedi TESTI e APPUNTI e vai al Percorso tematico La percezione dell’impermanenza
TESTI
Un grumo di schiuma Pheṇapiṇḍūpama sutta SN 22.95
La percezione dell’impermanenza Aniccasaññā-sutta SN 22.102
Madhupiṇḍika Sutta (MN 18) Papanca o proliferazione concettuale
Girimānanda Sutta (AN 10.60) (10 percezioni da coltivare)
Dutiyasaññāsutta (AN 7.49) (7 percezioni da coltivare) vedi APPUNTI 5 e 6
APPROFONDIMENTI
Anālayo, The Bāhiya Instruction and Bare Awareness
Anālayo, In the Seen Just the Seen: Mindfulness and the Construction of Experience
APPUNTI
1) Nome e forma (NAMA RUPA)
2) Inversioni percettive (saññā vipallāsā) Aṅguttara Nikāya 4.49 (trad. Olendzki)
3) Custodia dei sensi (citazioni da sutta) pamada sei animali
4) Anālayo, Nimitta
5) 10 Percezioni del GIRIMĀNANDA SUTTA cfr Anālayo mindfullyfacingdiseasedeath pp. 208 sgg. (in particolare: la percezione dell’impermanenza pp.214-216 vedi trad. it. nella sezione COMMENTI)
6) Percezioni AN7.49 AN10.60 + estratto in italiano
Grazie mille Sandra per la traduzione!
Condivido qui un breve discorso di Ajahn Jayasaro su come la meditazione quotidiana sul tema dell’incertezza, dell’impermanenza e del cambiamento è la chiave per prepararsi a rispondere agli eventi in modo da diminuirne l’effetto stressante. Nel momento effettivo della turbolenza, poi, ricorda l’importanza di radicarsi con presenza mentale e benevolenza nella consapevolezza delle sensazioni corporee.
I frangenti che stiamo vivendo sono per me un forte richiamo all’urgenza di praticare. Penso possa tornare utile la traduzione delle istruzioni a Girimananda sulla percezione del pericolo, dal libro di Analayo “Mindufully facing disease and death”
LA PERCEZIONE DEL PERICOLO
Le istruzioni per questa percezione nella versione Tibetana, introducono una lunga lista di malattie insieme all’affermazione che “questo corpo ha molta sofferenza e molti impedimenti: In questo corpo sorgono molte malattie”. La versione Pali è simile, con la piccola differenza che parla di “pericolo” invece che di “impedimento”.
Similmente alle precedenti percezioni, nel caso presente mi piace anche raccomandare un semplificazione, basata sull’affermazione riassuntiva di cui sopra che introduce la lista di varie malattie nel Girimananda-sutta e nel suo parallelo Tibetano.
L’affermazione riassuntiva sottolinea che il corpo fisico è soggetto a molto dolore e a molte malattie. Il mio suggerimento è di implementare questa comprensione basilare senza andare all’interno di ciascuna delle tante malattie elencate nel discorso. Una volta raggiunta familiarità con questo approccio semplificato, è naturalmente possibile, per chi sia interessato, avvicinarsi ad una modalità di contemplazione che assuma ciascuna malattia e afflizione esplicitamente menzionata nelle istruzioni per questa percezione.
L’approccio semplificato può essere combinato con un ulteriore body scan. Considerato che la precedente percezione della mancanza di bellezza nel corpo comprende tre scansioni del corpo, l’ultima delle quali termina con i piedi, per mantenere la continuità si potrebbe iniziare dai piedi e salire alla testa. Durante questa scansione del corpo si è consapevoli di ciascuna parte del corpo con la chiara comprensione che quella parte particolare può ammalarsi e diventare una fonte di dolore. Quando la scansione è completata, si rimane nella consapevolezza dell’intero corpo, unita al chiaro riconoscimento della vulnerabilità del corpo, del suo “pericolo” di diventare un “impedimento” diventando preda della malattia e del dolore.
L’esecuzione di questo tipo di pratica non richiede necessariamente di scendere nei dettagli dei particolari tipi di malattia che possono affliggere l’area del corpo che si sta considerando, oppure di considerare in quale modo questa malattia potrebbe arrecare dolore e afflizione al resto del corpo. Talvolta questo accade naturalmente e può rinforzare l’impatto della percezione, ma lo scopo principale dell’esercizio è soddisfatto quanto più si diventa chiaramente consapevoli del fatto che ciascuna ed ogni parte del corpo ha la potenzialità di ammalarsi, per cause esterne o interne.
Le malattie di cui può essere preda il corpo, includono quelle letali. La lista contenuta nel discorso tradotto nel dodicesimo capitolo, riporta il cancro, per esempio, e parecchie delle altre malattie ivi menzionate potrebbero diventare talmente gravi da portare alla morte. Dirigere la consapevolezza a questi “pericoli” inerenti al corpo, apre la porta al ricordare la morte come una parte integrale del presente esercizio. Nei termini della pratica attuale, mentre si rimane nella consapevolezza dell’intero corpo, dopo aver completato la scansione del corpo, si può permettere che la mortalità del corpo emerga come un particolare aspetto prominente della vulnerabilità del corpo in generale, e in particolare si può divenire consapevoli di non poter essere sicuri di essere ancora vivi perfino nel prossimo momento. Questa consapevolezza potrebbe poi essere messa in relazione con ciò che è descritto nel capitolo 24. In questo modo, dopo la scansione del corpo con attenzione alle varie possibili malattie che lo possono affliggere, si rimane nella consapevolezza dell’intero corpo e insieme del respiro, con la consapevolezza che ogni inspirazione potrebbe essere l’ultima e coltivando, in ogni espirazione, l’attitudine del lasciar andare.
Proprio come nella percezione precedente, la presente pratica meditativa dovrebbe anche essere portata avanti con uno sguardo all’equanimità. Quando la consapevolezza della vulnerabilità del corpo diventa troppo problematica, si può fare attenzione al fatto che nel momento presente non si hanno la maggior parte delle varie malattie che in via di principio potrebbero sorgere nel corpo. La consapevolezza del potenziale del corpo di ammalarsi può tuttavia, al bisogno, essere integrata tenendo a mente il fatto che non è assoggettato a tutte quelle possibili malattie. In questo modo ci si può assicurare il mantenimento dell’equilibrio interiore.
Una corretta coltivazione di questa percezione ha un notevole potenziale di trasformazione sul proprio atteggiamento nei confronti del corpo. Un chiaro apprezzamento della vulnerabilità del proprio corpo rende molto meno probabile che ci si impegni in attività di tipo rischioso unicamente per divertimento personale. In caso di malattia questa percezione si dimostra particolarmente valida. La maggiore difficoltà quando ci si ammala può derivare dalla convinzione inconsapevole di aver diritto alla salute, del fatto che l’essere privo di malattie sia la condizione di base del proprio corpo. La coltivazione regolare di questa percezione renderà incontrovertibilmente chiaro che queste convinzioni sono proiezioni della mente che non si accordano con la realtà. Non è affatto sorprendente che ci si ammali. Pensando correttamente, è sorprendente che non ci si ammali più spesso e più seriamente.
La realizzazione che è perfettamente naturale ammalarsi e sperimentare il dolore può ridurre considerevolmente le ripercussioni mentali stressanti quando ci si ammala. In più, la familiarità con questa percezione offre uno strumento per cambiare prospettiva, nel senso che, quando si è afflitti da una malattia particolare, si ha l’opportunità di considerare allo stesso tempo che non si è afflitti, nel momento presente, da una vasta gamma di altre malattie. Mentre si diventa consapevoli del dolore in una particolare parte del corpo, si può espandere l’attenzione per includere anche quelle parti del corpo che non provano dolore. Queste modalità di attenzione servono per prevenire un restringimento della prospettiva e permettono di stabilire una attitudine più aperta e accettante nei confronti dell’esperienza di essere ammalati. Al di là delle varie istruzioni date a Girimananda, questa percezione sembra la più direttamente rilevante per l’effettiva esperienza della malattia.
Un altro aspetto della percezione del pericolo è che essa procura un ponte tra l’insight sulla natura del corpo, un tema di cui si occupa la percezione precedente, e la consapevolezza delle sensazioni. Secondo l’affermazione riassuntiva che introduce le istruzioni per questa percezione, il corpo è soggetto a molto dolore e molte malattie. Perciò l’esperienza del dolore in varie forme e gradi è un aspetto integrante di questa meditazione.
In effetti l’elenco delle malattie fatto nel discorso dimostra che questa percezione non riguarda solo ciò che si potrebbe considerare malattia dal punto di vista medico, ma include anche certi aspetti del disagio fisico come l’esperienza del freddo e del caldo, la fame e la sete, o il bisogno di defecare e urinare. Proprio come le malattie, questo genere di disagi producono anche un dolore fisico gradualmente crescente, se non vi si pone attenzione, e possono perfino diventare fonte di gravi infermità.
In termini pratici si può volgere la consapevolezza ai bisogni del corpo in modo che sia costantemente protetto dalle temperature esterne. Il mantenimento del corpo richiede un regolare rifornimento di cibo e bevande, i cui rifiuti corporei devono essere gestiti con una simile regolarità. Perfino il semplice fatto di sedere in meditazione porterà eventualmente al sorgere di vari dolori che ci costringeranno a cambiare postura.
La consapevolezza del disagio di base implicito nell’avere un corpo può tuttavia essere parte della pratica formale combinandola al body scan, oppure portandola nelle attività quotidiane.
Tutto ciò che si richiede è un momento di riconoscimento consapevole quando si sente un intoppo o qualsiasi altro tipo di disagio fisico provocato dalla postura o dall’attività, quando si prova fame o sete, quando si sente troppo caldo o troppo freddo, o quando bisogna obbedire ai richiami della natura. Si rimane per un attimo semplicemente consapevoli delle richieste del corpo e questo permette di giungere ad un chiaro riconoscimento di ciò che questo significa dal punto di vista della natura del proprio corpo. Tutti questi aspetti sono mezzi per sviluppare l’insight “dell’Impedimento” o “pericolo” inerente al fatto di avere un corpo umano. L’applicazione appropriata della presente percezione si manifesterà con un crescente non-attaccamento e con un’attitudine equanime verso gli accadimenti che riguardano il corpo.
Ringrazio Letizia per i suoi preziosi insegnamenti che mi donano un forte sostegno e abbraccio tutto il gruppo del laboratorio di Mestre.
Traduco la terza istruzione di Analayo. Un abbraccio a tutti!
La percezione della mancanza di bellezza (3)
La percezione della mancanza di bellezza corrisponde alle istruzioni per la contemplazione delle parti anatomiche del corpo nel Satipatthana-sutta.
Questo discorso e il suo corrispettivo Madhyama-agama ci offrono ulteriori informazioni, grazie alla similitudine del sacco pieno di grani di cereali con la quale è descritto il giusto atteggiamento da assumere in questo esercizio. Il messaggio sembra essere che, come nel vedere di fronte a sé un sacco colmo di grani di cereali non si prova attrazione sessuale, allo stesso modo nei confronti del corpo si dovrebbe coltivare un’attitudine libera da attaccamento sensuale. Per abbandonare l’ossessione per l’attrattiva sessuale del proprio corpo e di quello dell’altro, può a volte essere utile sottolinearne gli aspetti meno attraenti e perfino disgustosi. Tuttavia, si dovrebbe fare questo con attenzione e con il chiaro scopo di pervenire all’equilibrio dato dalla libertà dall’attaccamento, e non allo squilibrio che un eccesso di repulsione può provocare.
L’istruzione di base della versione tibetana presenta le varie parti anatomiche con la raccomandazione di “riflettere attentamente su questo corpo, ricoperto dalla pelle, pieno di molte impurità, partendo dalla cima della testa giù fino alla pianta dei piedi”. La versione Pali in modo simile afferma che si dovrebbe “esaminare questo stesso corpo, racchiuso dalla pelle e pieno di molte impurità, dalle piante dei piedi verso l’alto e poi giù dalla cima della testa”.
Per facilitare la coltivazione della percezione della mancanza di bellezza mi piace suggerire una semplificazione, basata su un brano del Sampasadaniya-sutta e dei suoi corrispettivi, i quali descrivono una progressione della pratica dalla contemplazione delle diverse parti anatomiche alla contemplazione unicamente delle ossa, lasciando da parte pelle e muscoli. Questo implica che le parti anatomiche elencate nel Sampasadaniya-sutta, corrispondenti a quelle elencate nel Satipatthana-sutta, possono essere riunite in tre gruppi: pelle, muscoli, ossa.
Una volta sviluppata familiarità con questi tre gruppi, chi lo desidera può espandere questa modalità di contemplazione in modo da comprendere tutte le singole parti anatomiche elencate nel discorso per questa percezione.
Per mettere in pratica questa versione semplificata e sperimentarla in modo diretto, suggerisco di ricorrere al body scan. La pratica può avere come momento iniziale la consapevolezza dell’intero corpo nella postura seduta, seguita da un body scan rivolto in particolare alla pelle. Partendo dalla pelle che riveste il capo, si passa alla pelle nell’area del collo, delle spalle ecc., giù fino ai piedi. All’inizio sarà preferibile considerare braccia e gambe separatamente, ma in seguito si potranno percepire simultaneamente.
Dopo avere completato un body scan della pelle dalla testa ai piedi, per garantire continuità il successivo potrebbe partire dai piedi e muoversi gradualmente su fino alla testa, prendendo in considerazione la parte muscolare del corpo, organi inclusi. Questo a sua volta può dare l’avvio a un terzo body scan rivolto alle ossa dalla testa ai piedi.
Nel corso di questa pratica il compito è semplicemente essere consapevole della localizzazione di pelle, muscoli e ossa. A volte accadrà di avere una sensazione diretta di queste parti del corpo. Una sensazione di questo genere non è tuttavia necessaria, dato che scopo dell’esercizio non è il coltivare la sensibilità corporea fino al punto di sentire distintamente la pelle o i muscoli e le ossa nell’intero corpo. Ai fini del nostro esercizio è sufficiente una consapevolezza generale delle parti del corpo. Lo scopo è infatti combinare il radicamento della presenza mentale nel corpo con la chiara consapevolezza che quest’ultimo è fatto di pelle, muscoli e ossa. Tale consapevolezza dovrebbe poi essere accompagnata dalla comprensione che, per quanto utili a mantenere in vita il corpo, pelle, muscoli e ossa non sono in sé e per sé dotati di attrattiva sessuale.
Dopo aver completato in questo modo i tre body scan, la meditazione può procedere con la consapevolezza dell’intero corpo nella postura seduta, fatto di pelle, muscoli e ossa, visto come qualcosa che non è in sé sessualmente attraente. Segno di una pratica correttamente portata avanti è un crescente senso di libertà dall’attaccamento alla sensualità, unito alla comprensione che tutto il problema dell’attrazione sessuale non è che il prodotto di proiezioni mentali dirette verso ciò che fondamentalmente è della stessa natura dei grani di cereali racchiusi in un sacco.
Ciao a tutti, ecco la traduzione della seconda istruzione di meditazione, sulla percezione del non sé.
LA PERCEZIONE DEL NON SE’ (2)
Avendo dimorato, per tutto il tempo in cui lo si trova opportuno, nella percezione dell’impermanenza, si procede con la percezione del non-sé, nel senso della comprensione della natura vuota di ogni aspetto dell’esperienza sensoriale. Le istruzioni per questa percezione sono di riflettere come segue:
L’occhio è non sé e le forme sono non-sé, l’orecchio è non-sé e i suoni sono non-sé, il naso è non-sé e gli odori sono non-sé, la lingua è non-sé e i sapori sono non-sé, il corpo è non-sé e gli oggetti tangibili sono non-sé, la mente è non-sé e gli oggetti mentali sono non-sé. Queste sei sfere sensoriali interne ed esterne sono non-sé.
Per iniziare potrebbe essere utile aprire appena gli occhi e permettere allo sguardo di riposare davanti a noi, senza guardare nulla in particolare.
Poi, rivolgere l’attenzione agli occhi, e più in particolare alla facoltà della vista negli occhi, con la comprensione che la base fisica che consente la capacità di vedere è non-sé. E’ non-sé nel senso di essere vuota di qualsiasi cosa permanente, vuota di qualsiasi cosa che possa realmente e definitivamente essere in nostro possesso.
Poi l’attenzione si sposta dagli occhi a ciò che è visto. Qualsiasi oggetto arrivi nel campo della vista è sicuramente anch’esso non-sé, vale a dire, è vuoto di qualsiasi cosa che sia permanente, vuoto di qualsiasi cosa che possa realmente e definitivamente essere posseduto o essere nostro.
Dagli occhi, che ora possono essere nuovamente chiusi, si procede divenendo consapevoli delle orecchie, della facoltà dell’udito, e si rivolge l’attenzione a ciò che è udito. Idealmente ci si ritira in un posto appartato, come è specificamente raccomandato nelle istruzioni, secondo le quali il praticante dovrebbe sedersi in una foresta sotto un albero o in una capanna vuota. Tuttavia perfino in tali posti qualcosa si farà udire, presto o tardi. Questo succede maggiormente nel caso in cui non si possa praticare in un luogo appartato. Se si trasformano i “disturbi” in parte della pratica, questa meditazione può avere un effetto notevole. Qualsiasi suono si possa sentire, è anche non-sé. Non c’è bisogno di occuparsene, appropriarsene, renderlo “il mio” disturbo, e infine esserne infastidito.
La stessa procedura si applica al naso e a qualsiasi odore si possa percepire, anche se è piuttosto indistinto. Similmente si dirige la consapevolezza alla lingua insieme ai gusti, che nella seduta meditativa saranno solo il gusto di base della propria saliva.
Il corpo e il tatto forniscono facilmente oggetti evidenti per l’applicazione della strategia del non-sé. Una parte del corpo toccherà il pavimento, e oltre a ciò ci sarà la sensazione tattile dei propri vestiti e di qualche attrezzatura per la meditazione. A volte potrà manifestarsi dolore a causa della lunga seduta senza cambio di postura. In ogni caso, il corpo e il tatto sono non-sé.
Infine vi è la mente, che presto o tardi tenderà ad essere distratta. Perfino quando è totalmente distratta da qualche pensiero o fantasticheria, è sufficiente un attimo di riconoscimento sorridente insieme alla comprensione che anche questo è non-sé, e subito si ritorna al momento presente.
Avendo coltivato la percezione del non-sé in relazione a ciascuna delle sei sfere sensoriali individualmente, la pratica può procedere con la consapevolezza dell’intero insieme dei sei sensi e dei loro oggetti, notando che condividono la caratteristica di essere vuoti. Un segno della correttezza della pratica è riconoscere la natura vuota di tutti gli aspetti dell’esperienza, internamente ed esternamente, senza alcuna eccezione.
Buona settimana a tutti
Ciao a tutti, come promesso inizio a postare le traduzioni delle istruzioni di meditazione contenute nella conclusione del libro “Mindffully facing disease and death” di Analayo.
Pubblico ora la prima istruzione sulla percezione dell’impermanenza. Nei prossimi giorni pubblicherò anche la seconda sulla percezione del non-sé.
LA PERCEZIONE DELL’IMPERMANENZA (1)
In base alle istruzioni, tradotte nel capitolo 12, si dovrebbe contemplare in questo modo:
La forma fisica è impermanente, la sensazione è impermanente, la percezione è impermanente, le formazioni mentali sono impermanenti, la coscienza è impermanente. Si dovrebbero contemplare questi cinque aggregati dell’appropriazione come impermanenti.
Questa prima percezione include i cinque aggregati che sono oggetto di appropriazione:
La forma
La sensazione
La percezione
Le formazioni mentali
La coscienza
Come già discusso nel capitolo 2, il corpo fisico è ciò a cui in genere ci attacchiamo in quanto luogo “dove sono”, le sensazioni offrono l’opportunità di afferrarsi al “come sono”, le percezioni possono diventare oggetto di attaccamento a “cosa sono”, le formazioni mentali offrono una base per aggrapparsi al “perché sono” quando agisco in un certo modo, e la coscienza fornisce le basi per appropriarsi dell’esperienza “tramite cui sono”. Per contrastare queste appropriazioni, la corretta medicina è quella di dirigere la consapevolezza alla natura impermanente di ciascuno di questi cinque aggregati, individualmente e anche su tutti e cinque in combinazione.
Suggerisco di iniziare questa pratica diventando consapevoli del corpo nella postura seduta. Questa consapevolezza dell’intero corpo può fornire un’utile base per la continuità della consapevolezza attraverso l’intero programma meditativo descritto nelle istruzioni a Girimananda.
La consapevolezza del corpo nella postura seduta dovrebbe poi essere accompagnata dalla comprensione che questo corpo è impermanente. Tende a cambiare a livello cellulare in ogni momento, e alla fine morirà, cadrà in pezzi e si disintegrerà completamente.
Sapere che l’intero corpo ora è nella postura seduta implica una forma di consapevolezza propriocettiva, la capacità di sentire la posizione del corpo e conoscerla chiaramente senza neppure dover aprire gli occhi. Questo modo di sentire il corpo è la manifestazione dell’aggregato della sensazione. La consapevolezza di questo aspetto dell’esperienza meditativa sul corpo nella postura seduta, apre alla prospettiva del secondo aggregato. Ciò che è inoltre necessario a questo punto è la comprensione che anche le sensazioni cambiano; sono impermanenti.
La conoscenza del corpo nella postura seduta richiede l’abilità della mente di riconoscere che questo è “corpo” e che il corpo è nella “postura seduta”. Questo è il dominio del terzo aggregato, la percezione. Il riconoscimento di questa parte della stessa esperienza meditativa del corpo nella postura seduta va accompagnato dalla comprensione che anche la percezione è di natura cangiante.
La decisione di prestare attenzione al corpo nella postura seduta, proprio come a volte la tendenza della mente a perdersi in qualche fantasia o pensiero, è una espressione dell’aggregato delle formazioni mentali. Anche queste continuano a cambiare; il semplice fatto di distrarsi è una chiara dimostrazione che anche le formazioni mentali sono impermanenti.
La conoscenza di tutte queste sfaccettature dell’esperienza del corpo nella postura seduta avviene tramite la coscienza, l’ultimo dei cinque aggregati. Il fatto che questa conoscenza possa coinvolgere oggetti differenti, implica a sua volta che anche la coscienza deve essere di natura cangiante. Se fosse immutabile, conoscerebbe sempre solo un’unica cosa.
In questo modo lo schema dei cinque aggregati può essere impiegato per distinguere queste cinque sfaccettature nella situazione di base dell’essere seduti in postura meditativa, seguito dall’essere consapevoli di loro come processi, come cambiamenti, senza che nulla di permanente possa essere trovato in alcuno di essi. Dopo aver esplorato gli aggregati, uno alla volta, si può poi rimanere nella consapevolezza di tutti gli aggregati insieme, come di un mero flusso. La pratica procede in modo corretto se si diventa chiaramente consapevoli del carattere di processo di tutti gli aspetti di ciò che può essere afferrato come “IO”
Grazie mille Sandra! Mi permetto solo di proporre le seguenti correzioni per maggiore chiarezza … se ti sembrano accettabili le inseriamo direttamente nel tuo testo per future consultazioni …
1) “La forma fisica è impermanente”(bodily form)
(invece di “La forma del corpo è impermanente”)
2) “Il corpo fisico è ciò a cui in genere ci attacchiamo in quanto luogo ‘dove sono'” (invece di: “il corpo tende ad essere aggrappato al luogo del “dove sono”)
NOTA: In altri termini: non è il corpo che si aggrappa, ma il corpo fisico viene appropriato in quanto sede del sé; “io sono qui”, il corpo è il luogo “dove io sono, dove abito”, è il mio ‘indirizzo’, per dir così. Specialmente importante capirlo, perché questa è la condizione o esperienza più comune a cui dà luogo l’appropriazione.
Ovviamente, nel caso del samadhi, della investigazione vipassana, o di altre esperienze (patologiche e non, come la distrazione) il ‘dove sono’ non è associato al corpo fisico. E nel nibbana non è associato a nessuna ‘location’ perché il senso dell’io collegato ai cinque khandha viene meno.
3) “le percezioni possono diventare oggetto di attaccamento a ‘cosa sono'” (o a “ciò che sono”)
invece di: ” le percezioni possono diventare oggetto di appropriazione in “ciò che sono”
NOTA: In altri termini: l’attaccamento a ‘cosa sono?’ un insegnante, una donna, ecc. ha per oggetto una percezione.
Grazie a te Letizia, le tue correzioni e precisazioni sono assolutamente necessarie. Se puoi fare tu direttamente le modifiche te ne sono grata.
Fatte!
Ho aggiornato la pagina con il link all’articolo di Bhikkhu Analayo “The Bahiya Instruction and Bare Awareness” sull’istruzione del Buddha all’asceta Bahiya e la pratica della pura consapevolezza alle porte sensoriali. Questo include una trattazione analitica del sutta menzionato nell’articolo “In the Seen Just the Seen” (già pubblicato sulla pagina Mestre).
Nota: ho riorganizzato il materiale sulla pagina dividendolo in tre sezioni.
In chiusura, ringrazio tutti i partecipanti al Laboratorio Mestre. Come sempre, questo Forum resta aperto anche a chi ha seguito da casa e a chi prosegue lo studio e la pratica, da solo o in gruppo a Mestre, per commenti, domande e riflessioni sul tema della percezione, a partire dallo spunto testuale e dagli approfondimenti sulla pratica forniti dal venerabile Analayo.
Per seguire la conversazione via email: se non lo avete ancora fatto, ricordate di spuntare la casella “Notificami nuovi commenti” prima di pubblicare un commento (potete anche inserirne uno di PROVA che verrà cancellato – purtroppo non c’è modo di ricevere notifiche sulla discussione su un singolo articolo di questo blog se non si pubblica un commento)
PS Rispondo volentieri ai commenti postati su questa pagina, ma non inviateli privatamente per email.
A proposito di letteratura dal poema epico indiano Bhagagavdgita o Canto del Beato
“he whose intellect is unattached all around, who has subdued his self, freed from desire-he attains the Supreme state of freedom from action by renunciation”.
Chi ha la mente staccata da ogni cosa, che ha vinto il sé, che ha distaccato ogni desiderio, raggiunge, attraverso la rinuncia, la suprema perfezione della libertà dalle azioni. Paolo
Cap. XVIII, 49 trad. Raniero Gnoli Oscar classici
Buongiorno Letizia e buongiorno a tutti,
vorrei condividere con voi alcuni tra i vari collegamenti letterari che mi sono venuti alla mente durante questo interessantissimo laboratorio e che un po’ mi hanno aiutato ad orientarmi. Chiedo a Letizia, per favore, se le sembrano pertinenti con quanto trattato oppure se ho frainteso.
Quando abbiamo affrontato il tema del movimento perenne vitale, dell’impermanenza che permea la Vita, ho ricordato uno scritto di Virginia Woolf del 1923, dove la scrittrice critica aspramente i romanzieri a lei contemporanei che narrano utilizzando uno schema predisposto in cui “ingabbiare” le vicende, senza considerare che “…La vita è molto diversa da ‘così’”. Di seguito scrive: “Esaminate per un momento una mente qualsiasi in un giorno qualsiasi. Riceve una miriade di impressioni […] che piovono da ogni parte, come un diluvio incessante di atomi; e mentre cadono, mentre assumono la forma di vita del lunedì o del martedì, l’accento si posa in modo sempre differente; il momento essenziale non si è verificato qui, ma lì.” E più avanti afferma: “La vita non è una serie di lanterne disposte in modo simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro trasparente che ci avviluppa da quando cominciamo ad aver coscienza fino alla fine.” Lo stesso, più o meno, suggerisce Luigi Pirandello nel suo saggio “L’umorismo” del 1908 “La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, […] Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci.” E più avanti “In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali e gli occhi diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida …” Mi sembra di riconoscere in queste descrizioni la lucidità di una consapevolezza, non certamente, però, collocabile all’interno di un metodo che procura la cessazione della sofferenza (Pirandello, al contrario, nel testo prosegue dichiarando il rischio della pazzia nel ‘vedere’ la realtà com’è). Così mi è sembrato di riconoscere, in un altro punto di questo illuminante saggio, il momento in cui, come Letizia ha descritto, si può scoprire il trucco del coniglio che esce dal cappello. Per spiegare come funziona l’umorismo, perché ridiamo cioè di fronte a una scena che giudichiamo comica, Pirandello usa una storiella, poi diventata famosa, in cui descrive una vecchia signora che si veste da giovanetta, apparendo, quindi, ridicola agli altri al primo impatto; quando, però, chi la vede si ferma un momento a riflettere, non reagisce cioè d’impulso con il riso o la beffa, può comprendere che la vecchia signora, in realtà, non si veste così per suo piacere, bensì perché ha perso il marito, innamoratosi di una giovane, e cerca, in questo modo goffo, di riconquistarlo. Il momento della riflessione, della pausa tra l’esperienza sensoriale e la sua interpretazione, ci permette di non essere ingannati, di svelare la realtà com’è, di non filtrarla, cioè, attraverso i nostri preconcetti.
L’ultimo riferimento letterario che vorrei citare è un brano tratto dalla Recherche di Proust, che mi è venuto alla mente, trattando la proliferazione mentale. Mi sembra un buon esempio, se non mi sbaglio, di quest’attività nel processo percettivo (anche Dotsoevskij ne fornisce di memorabili). Si tratta del famosissimo brano della madeleine, il biscotto che il protagonista della serie di romanzi intingeva nel tè quand’era bambino e che, da adulto, gli permette di accedere a una memoria che credeva ormai perduta. Nella descrizione dell’esperienza, lunga qualche pagina, è possibile, secondo me, riconoscere i diversi momenti del passaggio dal contatto alla sensazione di piacere, alla percezione e fino alla proliferazione con il profluvio di idee, ricordi, emozioni che quel semplice contatto muove nella mente del protagonista. È una pagina memorabile per la sua bellezza letteraria, ma mi è sembrata interessante anche per rappresentare proprio ciò che succede nella percezione di qualcosa.
Perdonate la lunghezza dello scritto, ma volevo condividere con voi queste letture, poiché penso che in molte occasioni la letteratura, forse più di altre arti, aiuti a conoscerci e a conoscere la realtà. Vorrei anche dichiarare con forza la mia gratitudine, a Letizia in primis e a tutti voi (il valore, l’aiuto del gruppo meditante è incommensurabile), per questo interessante laboratorio, che mi dispiace sia praticamente già finito. Confido nel webinar tra un mese e nella possibilità di ritrovarci in primavera.
“poiché penso che in molte occasioni la letteratura, forse più di altre arti, aiuti a conoscerci e a conoscere la realtà. ”
Lo penso anch’io, Roberta. Grazie del commento, ne riparliamo al Laboratorio.
Ho aggiornato la pagina con i link ai due sutta dell’Anguttara Nikaya menzionati stasera sulle percezioni da coltivare (TESTI) Nella sezione APPUNTI il pdf del volume di Analayo, Mindfully Facing Disease and Death; e un estratto in italiano con l’elenco delle 7 percezioni + 10 percezioni del Girimananda Sutta.
Riporto la traduzione di un paio di brani tratti dall’introduzione al Madhupindika Sutta, tradotto in inglese da Thanissaro, che mi paiono significativi perché descrivono con chiarezza il ruolo del papanca nella costruzione del sé, da cui poi si genera il conflitto.
“Quali sono queste percezioni e categorie che assalgono la persona che “papanca”?
Sn 4:14 afferma che la radice delle categorie del papanca è la percezione “io sono colui che pensa”. Da questo pensiero riflessivo – in cui la persona oggettiva il sé, una cosa che corrisponde al concetto di “io” – possono derivare numerose categorie: essere/non essere, me/non me, mio/non mio, agente/agito, significante/significato. Una volta che il sé diventa un oggetto all’interno di una rubrica di queste categorie, è impossibile non essere assaliti dalle percezioni e categorie, derivate da queste distinzioni di base. Quando c’è l’identificazione in un essere che ha bisogno di soddisfarsi (vedi Khp 4), quindi basata su sensazioni che sorgono dal contatto sensoriale, alcune sensazioni sembreranno attraenti – degne di essere soddisfatte – e altre sembreranno degne di essere respinte. Da ciò cresce il desiderio, che viene in conflitto con il desiderio degli altri, anche essi desiderosi di soddisfarlo perché, anche loro impegnati nel papanca. Questo è il modo in cui l’oggettivazione interiore genera il conflitto esterno.”
“….ma è importante notare che seguendo il sentiero raccomandato in DN 21 – imparando ad evitare i riferimenti ad ogni nozione di “sé” e imparando a vedere le sensazioni non come oggetti ma come parti di un processo causale che affligge le qualità della mente – le basi del papanca siano gradualmente recise, e ci siano sempre meno occasioni di conflitto. Seguendo questo sentiero si raccolgono crescenti benefici lungo la strada.”
Sulla mente che divaga e che scodinzola.
Prapanca o papanca penso che voglia dire ” proliferazione cognitiva ed emotiva”.
Buddha Tathagata afferma ” Da ciò che percepiamo creiamo un pensiero, poi cominciamo a proliferare su quanto abbiamo pensato. E a causa di questo, pensieri e immagini ci assalgono da ogni dove.”
Quando ci si libera dalla proliferazione si gioisce. ll problema, allora, sta in noi, nella nostra mente che si distrae continuamente e spesso automaticamente, che insegue altri pensieri più o meno piacevoli .
Nel sermone del fuoco Sakyamuni mi sembra dire che non è la mente il problema, non i sensi, gli oggetti dei sensi ma nella relazione tra la mente ed i suoi oggetti, tra i sensi e i loro oggetti poiché la relazione è carica di attaccamento, odio e ignoranza. La mente, quindi, è contaminata, oscurata dalle afflizioni , dagli attaccamenti. Ne consegue che bisogna liberarsene praticando il Dharma, la meditazione per arrivare alla mente chiara e luminosa.
Una mente che che lavora e funziona : il puro essere nel presente, senza elaborazioni mentali. ” in ciò che ho visto, ci sia solo ciò che ho visto. In ciò che è udire, ci sia solo ciò che è udito”.
Commento dal punto di vista della neuropsicologia cognitivista.
Durante il giorno, le nostre menti vagano sembra per almeno la metà del tempo, persino di notte, nei sogni. Questo vagare, scodinzolare della mente potrebbe non essere, però, negativo. Ha degli aspetti costruttivi e adattivi.Ci permette di intuire cosa pensano le persone di noi, di anticipare il futuro e rivivere il passato. Queste divagazioni mentali ci affliggono quando invece dobbiamo essere concentrati in un compito o ascoltare qualcuno o durante una lunga meditazione, ma ci perdiamo spesso in pensieri che ci preoccupano o che ci fanno entrare in confusione. Certe divagazioni possono essere anche piacevoli ( cibo e sesso).
Psichiatricamente commentando: quando le divagazioni mentali diventano eccessive si chiamano cognizioni perservative e ruminazioni ossessive con effetti negativi a breve termine, senza arrivare alla confusione mentale. Rimuginare troppo sugli errori passati, pensare che gli altri pensino male di te ha effetti disastrosi sulla tua vita.
Riflettere sugli errori passati e sforzarsi di comprendere i pensieri e le azioni delle persone potrebbe, d’altra parte, essere una fonte di creatività e di arricchimento personale.
Meditando ho imparato che il momento in cui la mia consapevolezza non concettuale, non giudicante diventa più forte della proliferazione, mi colma di pace.. Le nuvolette ( pensieri) scorrono nel cielo e prima o poi lasciano il posto al cielo azzurro e sereno, fonte piacevole di attaccamento di pace.
Un geshe tibetano mi ha giustamente fatto osservare che potrei sviluppare però un forte attaccamento alla meditazione … standomene tutto il giorno a meditare e non vivendo la vita quotidiana senza aiutare gli altri esseri senzienti. Un egoista che mira soltanto alla propria liberazione personale. Fulminato sul sentiero!
A presto
Paolo Cappellotto
Ho aggiornato la pagina con il link a MN18 Madhupindika sutta, trad. Thanissaro, che fornisce nella breve introduzione anche i riferimenti agli altri sutta citati ieri sull’associazione fra ‘proliferazione concettuale’ e ‘dispute e conflitti’. Vedremo insieme il testo in dettaglio la prossima volta.
Di seguito la citazione dalla versione cinese dello stesso sutta, trad. Analayo, riguardo al senso e all’importanza dell’analisi del processo percettivo delineata nel discorso ‘Pallina di miele’:
MĀ 115 [The Buddha]:
“Monks, it is as if someone, because of dwelling in a secluded place, in the mountains or a forest, were to suddenly obtain a ball of honey. Whichever part of it he eats, he gets the taste of it. In the same way, a clansman in my true Dharma and discipline, whichever part of it he contemplates, he gets the taste of it: Contemplating the eyes he gets the taste, contemplating the ears … nose … tongue … body… contemplating the mind he gets the taste.”
MĀ 115 [The Buddha]:
“Monaci, è come se qualcuno, poiché dimora in un luogo solitario, nelle montagne o in una foresta, ottenesse all’improvviso una pallina di miele. Qualunque parte ne mangiasse, ne trarrebbe il gusto. Allo stesso modo, un membro di questo mio autentico Dharma&Disciplina, qualunque porzione contempli, ne trae il gusto. Contemplando la vista … l’udito … il gusto … il corpo … contemplando la mente ne trae il gusto”.
Ecco inoltre la citazione della risposta del Buddha a Dandapani che gli chiede cosa insegni, con l’intenzione di sfidarlo o ‘prenderlo sotto gamba’ (sempre trad. Analayo da MĀ 115):
“Sakyan, [my teaching] is not to quarrel with anybody in the entire world—devas, Māras, Brahmās, renunciants, and brahmins, from human beings to devas—to practice the pure holy life secluded from sensual desires, abandon hypocrisy, cut off worries, and not be attached to existence, non-existence, or non-perception. This is the basis of my dispensation, this is what I teach.”
“Sakya, [il mio insegnamento] è non litigare con nessuno al mondo, con i suoi dèi, demoni, angeli, rinuncianti e sacerdoti, esseri umani e deva; praticare la pura vita spirituale separata dai desideri sensuali, abbandonare l’ipocrisia, tagliare di netto le preoccupazioni e non essere attaccato all’esistenza, alla non-esistenza o alla non-percezione. Questa è la base della mia religione, questo è ciò che insegno”.
Ho aggiornato la pagina con APPUNTI (citazioni dai Sutta) relativi alla pratica del contenimento/custodia dei sensi (indriya samvara), a completamento di quanto detto circa l’attenzione (saggia e non saggia) ai nimitta.
Per inquadrare la pratica della custodia dei sensi nell’ambito dell’addestramento graduale vedi anche qui
https://letiziabaglioni.com/2017/04/18/abbandonare-i-cinque-impedimenti/
Un estratto dal Nimitta Sutta (AN3:103) in italiano, in cui il termine ricorre con riferimento al processo della concentrazione si trova qui
Fai clic per accedere a cittaprile.pdf
Arrivederci a Mestre lunedì 11 novembre! Nel frattempo la conversazione prosegue su questo Forum, invito anche chi segue da casa a postare qui domande e commenti.
Un saluto a tutti/e. Ho tentato la traduzione di questo testo, postato tempo fa da Letizia, sulle “inversioni” percettive, (che qui vengono definite “distorsioni”, ma che, in realtà come ha suggerito Letizia, sono delle vere e proprie “inversioni”, poiché scambiano le cose per il loro contrario).
Ritengo questo punto circa la confusione percettiva particolarmente importante nell’epoca in cui viviamo, epoca in cui siamo super sollecitati proprio percettivamente e in cui proprio le alterazioni percettive vengono utilizzate per scopi non molto “salutari. Un interessante saggio, uscito quest’anno per Einaudi, “I rischi della percezione-perché ci sbagliamo su quasi tutto” di Bobby Duffy, affronta il tema, presentando una serie di indagini svolte negli ultimi anni proprio su come l’opinione pubblica venga “orientata”, sia politicamente sia a scopi di consumo, utilizzando le alterazioni percettive.
Vipallasa Sutta: Distortions of the Mind
translated from the Pali by Andrew Olendzki
Questi quattro, o monaci, sono distorsioni della percezione, distorsioni delle distorsioni del modo di vedere del pensiero …
Non avvertire alcun cambiamento nel cambiamento,
Sentire piacere nella sofferenza,
Supporre “io” dove non c’è sé,
Sentire il non-attraente come attraente –
Andare fuori strada con visioni sbagliate, esseri
Percezioni errate con menti distorte.
Legate alla schiavitù di Mara,
Quelle persone sono lontane dalla salvezza.
Sono esseri che continuano a scorrere:
Passando nuovamente dalla morte alla nascita.
Ma quando nel mondo delle tenebre
I Buddha sorgono per rendere le cose luminose,
Essi presentano questo profondo insegnamento
Che pone fine alla sofferenza.
Quando quelli con saggezza hanno sentito ciò,
Recuperano la loro mente retta:
Vedono il cambiamento in ciò che sta cambiando,
Sofferenza dove c’è sofferenza,
“Non-sé” in ciò che è senza sé,
Vedono ciò che non è attraente come tale.
Con questa accettazione della retta visione,
Superano ogni sofferenza.
NOTE ALLA TRADUZIONE
Questi versetti dei Discorsi numerici forniscono l’elenco tradizionale delle vipallasas. Questa parola pali è talvolta tradotta come “perversioni” della mente; ma trovo questo linguaggio troppo forte e preferisco l’espressione “distorsioni” della mente.
Il termine è composto da un prefisso (vi-) che indica divisione, separazione o rimozione; un altro prefisso (pari-) che significa intorno o completo (come nella nostra parola perimetrale); e un verbo (-as) che può essere inteso come “lanciare”. Mettendo insieme tutto ciò, abbiamo l’immagine della mente che prende qualcosa, la gira e la butta giù, una perversione o distorsione della realtà da parte dell’apparato percettivo e cognitivo del cervello.
Le distorsioni sono fondamentali per la nozione buddista di ignoranza o illusione. Non è che siamo intrinsecamente imperfetti nella nostra natura, è solo che commettiamo alcuni gravi errori su molti livelli mentre tentiamo di dare un senso al mondo che ci circonda. Quando arriviamo a riconoscere – attraverso la pratica della meditazione – alcuni dei modi in cui fraintendiamo le cose sulla nostra esperienza, diventiamo più capaci di correggere questi errori e ottenere maggiore chiarezza.
Le distorsioni della mente funzionano su tre livelli di scala. In primo luogo, le distorsioni della percezione (sañña-vipallasa) ci inducono a percepire erroneamente le informazioni che ci arrivano attraverso le porte dei sensi. Ad esempio, potremmo confondere una corda lungo il sentiero come un serpente. Normalmente tali errori visivi vengono corretti da un esame più attento, ma a volte questi errori sensoriali vengono trascurati e rimangono.
Le distorsioni del pensiero (citta-vipallasa) hanno a che fare con il successivo livello superiore di elaborazione mentale, quando ci troviamo a pensare o a riflettere sulle cose nelle nostre menti. La mente tende a elaborare la percezione con questi schemi di pensiero e se i nostri pensieri si basano su distorsioni della percezione, anche loro saranno distorti.
Alla fine tali schemi di pensiero possono diventare abituali ed evolvere in distorsioni della visione (ditthi-vipallasa). Potremmo essere così convinti che ci sia un serpente lungo il percorso che nessuna prova contraria addotta dai nostri occhi o dalla nostra ragione, né dai suggerimenti degli altri, scuoterà le nostre credenze e ipotesi. Siamo bloccati in una visione sbagliata.
Inoltre, questi tre livelli di distorsione sono ciclici: le nostre percezioni si formano nel contesto delle nostre opinioni, che sono rafforzate dai nostri pensieri, e tutti e tre lavorano insieme per costruire i sistemi cognitivi che compongono la nostra personalità unica.
Senza dubbio riconoscerete che le distorsioni particolari menzionate in questo testo corrispondono alle tre caratteristiche. Prendendo ciò che è impermanente (anicca) come permanente, ciò che è intrinsecamente insoddisfacente (dukkha) come fonte di soddisfazione e ciò che è senza un sé (anatta) per costituire un sé – questi sono i modi principali in cui distorciamo la realtà per il profondo svantaggio di noi stessi e degli altri. Vedere ciò che non è attraente (asubha) come attraente, completa la tradizionale lista dei quattro vipallasa.
Mi piace il modo in cui questi versetti dicono che sotto l’influenza di queste distorsioni abbiamo “perso i nostri sensi” (vi-saññino) e la nostra mente è “spezzata” o “gettata” (khitta-citta). Quando, invece, le distorsioni sono corrette dalla retta visione, da un chiaro pensiero e da un’attenta percezione, allora il testo dice che abbiamo “restituito” (pacca-latthu) la nostra “vera mente” (sa-citta).
Questa è la visione buddista delle malattie mentali e della salute mentale. L’illusione è una malattia mentale che causa ogni tipo di sofferenza; la salute mentale può essere ripristinata correggendo i difetti nel modo in cui la mente opera. Fortunatamente, “I Buddha nascono per rendere le cose luminose” e illustrano in dettaglio come può essere realizzato questo recupero della nostra salute naturale.
Ho tradotto la prima parte dell’articolo di Analayo su nimitta. Mi sembra interessante la parte in cui descrive la “sfumatura causale” del nimitta, ma soprattutto è interessante la descrizione di come il nimitta possa condurre a percezioni errate.
Nimitta è un segno, nel senso di un significato caratteristico di una cosa. Il Potalya Sutta (M. I, 360) per esempio si riferisce all’aspetto esteriore di una persona come al proprietario di un “nimitta”. Similmente il Ratthapalasutta (M. II, 62) descrive una schiava che riconosce il figlio primogenito della casa, ora divenuto monaco e che ritorna dopo una lunga assenza, per mezzo del “nimitta”.
In altri passaggi dei discorsi la parola “nimitta”suggerisce l’idea di una causa, come ad esempio nel Sanimitta Vagga del Anguttara Nikaya (A. I,82) dove è sinonimo di un termine come niddana (causa) hetu (radice), e paccaya (condizione). Nel Vesarajja Sutta dello stesso Anguttara Nikaya (A. II, 9) troviamo la stessa sfumatura, quando il Buddha sottolineava che non vedeva alcun fondamento (nimitta) in base al quale altri avrebbero potuto accusarlo di aver falsamente affermato di essere completamente risvegliato.
Questa sfumatura causale nel termine nimitta è sottesa anche nei primi esempi menzionati, dove nimitta ha a che fare con l’aspetto esteriore. Il punto è, in questo caso, che per la schiava il riconoscere qualcuno il cui taglio di capelli e abito fossero ora completamente differenti da come era solita vederli prima, significa che lei si fosse accorta di quei particolari del suo aspetto che erano rimasti immutati. Proprio questi aspetti erano diventati il suo nimitta in questa situazione, “causando” il fatto che lei fosse in grado di riconoscerlo.
Questo è il motivo per cui nimitta è un fattore centrale nella meccanica operativa della memoria e del riconoscimento, poiché è grazie all’aiuto di nimitta che l’aggregato della percezione o cognizione, sanna, è in grado di unire le informazioni ricevute nel momento presente con i concetti, le idee e le memorie.
Il fatto che le percezioni e le cognizioni operino, basate su riconoscimenti come nimitta, nel mondo attorno a noi, non è comunque privo di problemi. Per poter essere in grado di riconoscere qualcuno dopo una lunga assenza, devono essere presi in considerazione i nimitta che sono meno suscettibili di cambiamento. Questa necessità conduce ad una enfasi sugli aspetti più costanti dell’esperienza nella nostra valutazione percettiva del mondo. E’ per questo che lo stesso meccanismo della percezione, così com’è basato sul riconoscimento dei nimitta, porta facilmente ad una errata nozione di permanenza. Ogni azione di riconoscimento riuscita, se non contrastata da una sistematica attenzione alla verità dell’impermanenza, può così aggiungersi alla presunzione inconscia che c’è qualcosa nei fenomeni che non cambia.
E non c’è solo questo, il nimitta può anche condurre ad altre nozioni errate. Nel processo della percezione il nimitta può portare con sé un prima valutazione del significato dei dati poiché è a questo primo stadio di valutazione percettiva che ha luogo la decisione semi-cosciente che riconosce l’oggetto percepito dai sensi come sufficientemente interessante da meritare ulteriore attenzione. E’ grazie a questo input valutativo che un oggetto può apparire, per esempio, bello (subhanimitta) o irritante (patighanimitta). Proprio per questo motivo il Mahavedalla Sutta (M. I; 298) parla delle tre radici contaminanti del desiderio, dell’avversione e dell’illusione, come “creatori di segni” nimittakarana.
Sulla funzione della mente nel Buddismo delle origini.
Il problema della mente.
La mente viene vista , mi sembra, come un “organo interno” con funzioni che consentono il prodursi delle sensazioni, dei pensieri, dei ricordi e della capacità di discernimento, e, quindi, non si intende una autocoscienza riflessiva, l’autoidentità, ma, come uno speciale organo di senso, una base sensoriale che ha per oggetto le idee e che controlla le altre cinque basi sensoriali, i cinque sensi.
La classificazione viene attribuita ad Aristotele ma, oggi, si possono aggiungere vari altri, come il senso dell’equilibrio, il dolore, la temperatura, la posizione degli altri.Questi sistemi sensoriali, inoltre, sono molto più interconnessi e diffusi nel cervello di quanto si pensasse; la visione non riguarda solamente il vedere e l’udito non si limita al’ascolto.Il nostro cervello è molto bravo a sostituire un segnale sensoriale con un altro.
Sempre secondo il Buddismo antico,la mente ha una funzione centrale nello svolgere in ogni atto conoscitivo, 5 khandha ,e, nel ruolo della coproduzione condizionata. Vinnana, il 5 aggregato di questo percorso cognitivo non è separabile dagli altri 4, e forte è il legame che vinnana ha con le basi sensoriali; si deve parlare di coscienza in generale solo in rapporto ai 5 sensi, ossia di coscienza visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile. Un sesto senso che condiziona vinnana e che è costituito da mano, la mente. Pertanto,dal sorgere del corpo e della mente sorge la coscienza. Vinnana ,allora, potrebbe funzionare come una consapevolezza attenzionale al lavoro della mente, sempre impermanente, variabile e non identificabile con una struttura permanente ( anicca).
La mente , come viene bene illustrata nel paticcasamuppada ” Bhavachakra” o Ruota della esistenza, è rappresentata da una scimmia che salta da una casa all’altra, l’ignoranza come una vecchia cieca che va verso un precipizio, il nome-forma come due uomini in una barca, l’attaccamento come una scimmia che afferra un frutto da un albero, i sei sensi come sei finestre di una casa, le intenzioni come un vasaio che dà la forma ad una brocca, il contatto come una coppia che fa l’amore, la sensazione come una freccia che colpisce un occhio, la brama un essere umano che alza un boccale di birra e … altre immagini simboliche.
Propongo come esercizio di esempio il prendere una mela e analizzare l’intreccio complesso di processi interagenti.
Queste mie riflessioni sono in parte nate da discussioni con Richard Gombrich e Giangorgio Pasqualotto.
Bibliografia essenziale
Richard Gombrich Il pensiero del Buddha Adelphi
Giangiorgio Pasqualotto Tra Oriente e Occidente Mimesis
Paolo Cappellotto
Ho aggiornato la pagina (vedi Appunti e Letture) con links ai due sutta menzionati stasera e una voce di enciclopedia sul concetto di Nimitta a cura di Analayo. Ci torneremo la prossima settimana.
Ho aggiornato la pagina con un documento di APPUNTI su Namarupa (nome-forma)
L’audio del primo incontro di Mestre è ora disponibile alla pagina AUDIO
Traduco dall’articolo di Analayo, In the Seen Just the seen: Mindfulness and the Contruction of Experience.
NOME-E- FORMA NELL’ANALISI DELL’ESPERIENZA DEL BUDDISMO ORIGINARIO
L’impatto dell’elaborazione mentale sul modo in cui l’informazione sensoriale viene ricevuta è stato già riconosciuto nell’analisi dell’esperienza del buddismo originario, termine che si riferisce al pensiero buddista in un periodo che presumibilmente va dal 5° al 3° secolo A.C.
Un insegnamento centrale connesso a questo tema è la dottrina dell’origine dipendente (in Pali, paticca-samuppada). Una presentazione ricorrente di questa dottrina si articola in 12 anelli, i quali conducono dall’ignoranza (avijja) fino alla sofferenza e all’afflizione (dukkha). Uno studio esauriente di essa andrebbe oltre i confini del presente articolo.
Per i miei scopi attuali, è sufficiente prendere in esame alcuni suoi aspetti specifici. Di particolare interesse per i miei obiettivi è la formulazione, reperibile in tutte le versioni del Grande discorso intorno ai nessi causali (DN 15), di un condizionamento reciproco fra il terzo e il quarto anello dell’origine dipendente.
Questi due anelli sono la coscienza (vinnana) e nome-e-forma (nama-rupa).
Qui “coscienza” si riferisce alla ricettività della mente che le consente di essere consapevole di qualcosa. Ciò di cui la coscienza è consapevole è definito come “nome-e-forma”. In questo contesto, “forma” corrisponde alla dimensione materiale dell’esperienza, mentre “nome” si riferisce alle funzioni della mente, a esclusione della coscienza. Quindi “forma” include l’esperienza della solidità, coesione, temperatura e movimento (espressi nei termini dei 4 elementi, vale a dire terra, acqua, fuoco e aria). “Nome” comprende i seguenti fattori mentali (SN 12.2 ed EA 49.5): sensazione (vedana), percezione (sanna), intenzione (cetana), contatto (phassa) e attenzione (manasikara).
“Sensazione” indica la dimensione affettiva dell’esperienza in quanto piacevole, spiacevole o neutra (non si riferisce pertanto all’emozione). “Percezione” significa collegare un concetto all’esperienza, e rappresenta quindi la cognizione e il riconoscere. Con “intenzione” si intende la dimensione della finalità, la capacità di reagire all’esperienza o al suo potenziale. “Contatto” designa il vero e proprio evento dell’esperienza, cioè la congiunzione della mente con una delle porte sensoriali e con il suo oggetto in uno specifico tempo e spazio. Grazie all’”attenzione” è invece possibile notare un aspetto particolare di una qualsiasi situazione presente.
Questi cinque fattori presi insieme sono responsabili della genesi di un “nome”, vale a dire della formazione di un concetto mediante il quale l’esperienza viene categorizzata e riconosciuta, a livello mentale o verbale.
Nome e forma insieme comprendono l’intera gamma di quanto è esperito dalla coscienza. Secondo l’analisi del buddismo originario, così come la coscienza dipende da nome-e-forma (da cui riceve il contenuto), così nome-e-forma dipende dalla coscienza (al fine di essere conosciuto). Questo condizionamento reciproco garantisce continuità nel corso della vita umana (e oltre) in assenza di un agente permanente dell’esperienza.
Una implicazione fondamentale di questa presentazione nell’analisi dell’esperienza del buddismo originario è che qualsiasi esperienza della realtà fisica è intrinsecamente intessuta dei fattori mentali riuniti in “nome”.
A questo riguardo, il pensiero del buddismo originario differisce dalle tradizioni buddiste successive, nelle quali a volte si manifesta la tendenza a reificare la materia come una realtà ultima, rendendo indispensabile una modalità di appercezione libera da concetti per poter essere veramente compresa.
Sebbene tali nozioni siano certamente significative nell’ambito dottrinale delle tradizioni successive, esse non sono rilevanti per la comprensione dell’epistemologia del buddismo originario.
Dal punto di vista del buddismo originario, in nessun modo la coscienza può essere consapevole della materia in quanto tale. Può solo essere consapevole della materia come parte di nome-e-forma, dunque come qualcosa di inseparabile dalla sua elaborazione mentale. L’idea di una pura esperienza della materia, separata da qualsiasi elaborazione (e quindi influenza) mentale, costituisce, secondo la prospettiva del buddismo originario, nient’altro che un “mito”, prendendo a prestito il termine usato da Barret (1).
Sia che si tratti di visione, suono o di qualsiasi altro oggetto dei sensi, l’elaborazione mentale con la sua attività di costruzione è indispensabile perché abbiano luogo il vedere, l’udire ecc. Pertanto, i fattori mentali e le attività riuniti nella categoria “nome” sono davvero “in modo significativo la fonte primaria di tutti i contenuti delle nostre percezioni”, per usare l’espressione impiegata da Clark (2). Essi condizionano e modellano la nostra esperienza in modo decisivo.
(1) Barret, How emotions are made, the secret life of the brain.
(2) Clark, Whatever next? Predictive brains, situated agents, and the future of cognitive science (entrambi citati nella prima parte dell’articolo).
Grazie Iaia, questo è molto utile! Mi limito a evidenziare un punto che riprenderemo nel prossimo incontro di Mestre:
“Una implicazione fondamentale di questa presentazione … è che qualsiasi esperienza della realtà fisica è intrinsecamente intessuta dei fattori mentali riuniti in “nome”. A questo riguardo, il pensiero del buddismo originario differisce dalle tradizioni buddiste successive, nelle quali a volte si manifesta la tendenza a reificare la materia come una realtà ultima che si può comprendere appieno solo applicando una modalità di appercezione libera da concetti”.
Mi sono permessa di modificare la traduzione dell’ultima frase per maggiore chiarezza. La “modalità di appercezione libera da concetti”, propugnata dalle scuole ‘vipassana’ theravada e posteriori, è stata introdotta nel sistema meditativo sulla base di un presupposto metafisico che non troviamo nei Discorsi.
Ciò ha comportato variazioni nella tecnica meditativa e nel modo di coltivare la presenza mentale e l’indagine (vipassana) che vediamo, ad esempio, nell’approccio di Goenka: la consapevolezza dovrebbe arrivare a cogliere il momentaneo sorgere e svanire dei kalapa (atomi o quanti di energia/materia considerati puri fenomeni o realtà ultima) per decostruire la percezione di solidità.
Come Analayo sottolinea (qui e altrove), la modalità di conoscenza diretta proposta nei Discorsi non è “non concettuale” (semmai, ‘non discorsiva’) e non richiede una dissezione a livello “atomico” e “momentaneo” per pervenire a una presunta “realtà ultima”, bensì un’abile penetrazione della natura condizionata, costruita, cangiante e impersonale dell’esperienza unitaria (che è sempre psico/fisica) tramite l’applicazione di concetti raffinati (le percezioni ‘correttive’ applicate nelle contemplazioni satipatthana). Il ‘non condizionato’ o ‘non costruito’ dei Discorsi antichi (nibbana) è la libertà dal condizionato tramite il non-aderire (cessazione della brama e dell’appropriazione). Tutto quanto è conosciuto o esperito (inclusi gli stadi meditativi di quiete o visione profonda) è solo una variazione della modalità percettiva.
Nama-rupa è equivalente ai 5 aggregati?
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