Tag

, , , , , ,

Immaginate una chioccia con otto … o dodici uova che ha ben covato, ben riscaldato, ben accudito. Anche se non desidera espressamente: “O, se i miei pulcini uscissero sani e salvi, rompendo il guscio con gli artigli e il becco!”, si dà il caso che i pulcini escano sani e salvi, rompendo il guscio con gli artigli e il becco. E perché? Ma perché la chioccia ha ben covato, ben riscaldato, ben accudito le sue otto … o dodici uova. (Saṃyutta Nikāya 22.101)

pulciniChiunque abbia un minimo di dimestichezza con i Discorsi del Buddha avrà incontrato una o più immagini che presentano i vari aspetti della pratica come artigianato del cuore o come messa a frutto di risorse naturali attraverso i sapienti, deliberati gesti di chi esercita un mestiere (dal macellaio, al tornitore, all’agricoltore, all’addestratore di elefanti o cavalli, all’acrobata, all’orafo).  E avrà incontrato ripetuti accenni allo sforzo e alla determinazione necessari a contrastare l’inerzia della ‘materia grezza’ o le ‘abitudini selvatiche’ di un cuore non lavorato, non educato, che sembra produrre sofferenza anche contro le nostre migliori intenzioni. Se abbiamo provato a meditare, o comunque a gettare uno sguardo non superficiale ai variegati moti del cuore che pretendiamo ‘nostro’, conosciamo lo stallone imbizzarrito, il puledro ombroso, il brocco sonnolento, la cavallina che prende la mano, il purosangue sussiegoso, il “cavallo stramazzato” del montaliano male di vivere. Conosciamo la inquietante sensazione di dualismo o straniamento, quel “io e la mia (?) mente” a cui parla la metafora del rapporto con “l’animale”, sia esso il cavallo delle fonti pāli o il bue delle famose “10 vignette” dello zen.

Però, qui il praticante è l’animale. Una gallina, per la precisione, che divenuta chioccia esibisce la sua innata intelligenza facendo “bene” – il termine pāli è sammā, lo stesso usato per i fattori del nobile ottuplice sentiero – (1) il suo mestiere di gallina. Il bhikkhu dedito alla coltivazione, alla bhāvanā (2) con l’assidua, istintiva dedizione della chioccia che cova non ha bisogno di desiderare la liberazione, né di sorvegliare ansiosamente (narcisisticamente) i propri progressi: tutto avviene per naturale conseguenza, poiché vi sono le condizioni giuste. A parte il lieve umorismo della chioccia sospirosa (soprattutto se immaginiamo i monaci a cui il discorso originariamente si rivolge) mi colpisce il calore, la vividezza sensoriale dei pulcini che sgusciano sani e salvi rompendo il guscio con gli artigli e il becco. Li vediamo aggirarsi per l’aia pigolando, pronti a muoversi nel mondo oltre i confini della mente-chioccia.

Le cose nuove e vitali e tenere e buone e non ancora formate vanno dapprima riscaldate e protette, perché la gestazione non è esente da rischi. La gallina distratta o incostante, che il discorso citato evoca inizialmente, si augura un felice esito della cova ma inutilmente: tanti sono i pericoli cui vanno incontro le uova trascurate (furto, rottura, predatori) ed esse rischiano di marcire se il delicato processo di maturazione si interrompe. Addirittura, leggevo che una gallina d’allevamento in condizioni malsane può sviluppare l’abitudine di mangiare le proprie uova, distruggendo il potenziale pulcino (3).

Il tema della “naturalezza” (dhammatā) dello sviluppo spirituale in quanto processo che segue la regola generale della contingenza o condizionalità (“se c’è questo, quello viene in essere, se non c’è questo, quello non viene in essere o viene meno”) attraversa come un fil rouge i Discorsi, introducendo un’altra prospettiva, più impersonale e distesa, meno volontaristica o tecnicistica accanto alle metafore educative o artigianali, senza per altro contrapporvisi o negarla (cfr questo post).

Penso ad esempio al Cetanā Sutta dell’Aṅguttara Nikāya (trad. it. QUI ) dove si osserva che una persona dotata di genuina integrità morale non ha bisogno della volontà per sentirsi in pace con la propria coscienza e quindi tendenzialmente fiduciosa. Lo stesso concetto si ripete per una serie di fattori e stati mentali che si implicano e condizionano a vicenda, rendendo superfluo un “agente” esterno che imponga al processo una propria “agenda” o sentimenti come la speranza, l’aspettativa, il desiderio di diventare qualcosa. Dalla gioia, alla tranquillità fisica, all’agio, al raccoglimento (samādhi), al conoscere e vedere in accordo con la realtà (yathābhūtaṃ), la sequenza sfocia nella visione e conoscenza della liberazione, passando per la disillusione (nibbidā) e l’affievolirsi della brama (virāga) riguardo a ogni tipo di esperienza sensoriale e costruzione mentale.

Notate che,  secondo il Cetanā Sutta (ma il concetto è ribadito in vari altri luoghi) “è naturale che la mente di una persona a proprio agio si raccolga [e] che una persona con una mente raccolta conosca e veda le cose così come sono”. Siamo lontani dallo sforzo velleitario e controllante che spesso connota l’idea ordinaria di ‘concentrazione’. La chiave sembra essere una sensibilità seminale al buono che frequentata, alimentata, custodita e incarnata nel quotidiano porta a scoprire e poi a ritrovare dentro di sé con sempre maggiore sicurezza il giusto nido per la cova.

Oltre alla similitudine della chioccia, il discorso citato contiene altre due belle immagini dei risultati organici e graduali della coltivazione del sentiero: quella dell’ascia del falegname, il cui manico si consuma impercettibilmente con l’uso fino a mostrare l’impronta delle dita, e quella della barca in secca esposta alle intemperie, il cui sartiame si corrode facilmente. In questo caso l’accento è sull’esaurirsi o consumarsi dei condizionamenti profondi – gli ‘influssi’ (āsava) o i ‘ceppi’ saṃyojana – che qualifica l’esperienza della liberazione.

Potete leggere il Vāsijaṭasutta SN 22.101 nella trad. inglese di Bhikkhu Bodhi QUI  e troverete il rinvio al testo pāli (PTS SN III p. 153) che ho consultato per la mia citazione. Una traduzione italiana del  Saṁyutta Nikāya: Discorsi in gruppi, a cura di V. Talamo, è edita da Astrolabio, Roma 1998.

Note
(1) In riferimento all’ottuplice sentiero il termine è tradotto spesso con “retto” , “appropriato”. In altri contesti ha il senso di “completo”, “integrale” oppure “opportuno”, nel senso che arriva al momento giusto o è adatto alla circostanza.

(2) Bhāvanā (dal verbo bhāveti, causativo di bhū = far essere, generare, produrre, coltivare, sviluppare) è il termine che designa la meditazione nel senso di sviluppare un tema, applicare il pensiero a qualcosa, coltivare una certa qualità o percezione, come p. es. la benevolenza, l’impermanenza o gli aspetti non attraenti del corpo. E’ anche un modo di parlare, in generale, della “pratica”.  Il sutta citato la presenta nel modo più inclusivo e analitico possibile elencando le 7 intestazioni – dai quattro modi di stabilire la presenza mentale (satipaṭṭhāna) al nobile ottuplice sentiero – sotto cui il Buddha espone gli elementi da coltivare, i fattori costitutivi del risveglio. Vedi l’elenco dei 36 bodhipakkiyā QUI

(3) www.biozootec.it/gallina_mangia_uovo.aspx

La foto dei pulcini è tratta dal sito http://www.lacasanettarina.iit