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consapevolezza della sensazione, Laboratorio Mestre, satipatthana, sensazione, tendenze latenti, vedana

“Immagina una bolla d’acqua che si forma e dissolve sull’acqua … quale sostanza potrebbe esservi in una sensazione?” (Saṃyutta Nikāya 22.95)
Questo post presenta una selezione di audio tratti dal Laboratorio di studio e pratica del Dhamma tenutosi a Venezia Mestre ottobre-dicembre 2018 e da altre occasioni di pratica. Le letture, i commenti e gli spunti di pratica del Laboratorio sono stati conservati su questa pagina per integrare l’ascolto con lo studio e la pratica relativi alla consapevolezza della sensazione (tonalità o risonanza affettiva del contatto) secondo le istruzioni satipaṭṭhāna.
AUDIO
Vedanā – introduzione [Errata corrige: al min. 23.00 Rapporto annuale CENSIS 2018 invece di “Rapporto Istat”]
Vedanā – meditazione guidata
Vedanā – tendenze latenti
Vedanā – la sfida del dolore
Vedanā – quiete e visione profonda
Sallatha Sutta SN 36.2 – Le due frecce
Vedanā – meditazione guidata (2)
Vedanā – meditazione guidata (3)
LETTURE
(vedi l’area dei Commenti per la trad. it. di alcuni brani degli articoli)
Contemplazione delle sensazioni nel satipatthana
Sallatha Sutta (Discorso sulla freccia) Saṃyutta Nikāya 36.6
L’abisso senza fondo Saṃyutta Nikāya 36, trad. Bhikkhu Bodhi
Bhikkhu Analayo, Insight-Journal-Neutral-Feelings
Bhikkhu Analayo, UnderlyingTendencies
Bhikkhu Analayo, The potential of pleasant feeling
Bhikkhu Analayo, The challenge of pain
SPUNTI DI PRATICA
1) Appunti1
2) Appunti2
VEDI ANCHE
A beneficio degli assenti informo che lunedì 19 novembre non si è svolto il laboratorio per un impedimento di Letizia, non verranno dunque pubblicate nuove registrazioni in settimana.
Approfitto della pausa per postare una traduzione tratta dall’articolo di Analayo “La sfida della sofferenza” (pag.7)
Sensazione dolorosa e Satipaṭṭhāna
L’impressionante capacità di evitare la seconda freccia del dolore mentale non esaurisce ancora il potenziale della consapevolezza in relazione alle sensazioni dolorose. La pratica sostenuta del secondo satipaṭṭhāna, la contemplazione dei tre tipi di sensazione (piacevole, spiacevole e neutra), rivela il livello sorprendente in cui è naturale che nel corpo sorga il dolore.
Questa è un’intuizione cruciale, dal momento che la seconda freccia acquista una parte considerevole del suo impatto dal tacito assunto che in qualche modo abbiamo diritto di essere liberi dal dolore. Pertanto, il dolore non dovrebbe accadere. Quando si manifesta, sembra quasi ingiusto: perché io? Che cosa ho fatto per meritare questo dolore?
La sfida del dolore
Tuttavia un esame più ravvicinato mostra che il corpo è una fonte costante di dolore. Mentre ci sediamo in meditazione, prima o poi il dolore fisico ci costringe a cambiare posizione. Anche la postura di sdraiata non può essere mantenuta per lunghi periodi senza causare il dolore e la necessità di girarsi e modificare la posizione del corpo.
A parte il dolore che sorge quando il corpo resta immobile in qualsiasi posizione, c’è l’irritazione causata dalla temperatura esterna. Ora fa troppo caldo, oppure fa troppo freddo. Dobbiamo adattare il nostro abbigliamento o accendere un ventilatore o il riscaldamento per evitare sensazioni spiacevoli dovute alla temperatura.
Un’altra dimensione della stessa situazione è la necessità di cibo e di bevande. Molta parte della nostra attenzione, tempo e risorse sono dedicate a rifornirci di ciò che vorremmo mangiare e bere. Non solo soddisfare le nostre preferenze, ma anche creare e rafforzare tali desideri negli altri riceve molta attenzione e pubblicità. Ma la verità è che, per evitare il dolore della fame e della sete, dobbiamo mangiare e bere.
Quando quella sofferenza è stata affrontata con successo, almeno per un breve periodo, il risultato inevitabile è la necessità di defecare e urinare. Non riuscire a obbedire ai richiami della natura nel tempo diventerà un’altra fonte di sofferenza. In un certo senso, il ristorante e il bagno sono parimenti strutture per alleviare la sofferenza.
Fare un respiro profondo sembra così piacevole. Ciò è semplicemente perché per un momento la richiesta costante di ossigeno del corpo è stata soddisfatta. Dobbiamo respirare per evitare la sofferenza causata da una mancanza di apporto di ossigeno.
Come esplorazione pratica, potremmo tenere traccia della quantità di tempo e attività trascorsa durante il giorno solo per mantenere il corpo in una condizione meno che dolorosa. Quanto tempo e sforzo dedichiamo a dormire, mangiare, bere, vestirsi, lavarci e così via?
L’intuizione che ne deriva può essere piuttosto sobria. Non solo mette in prospettiva la ricerca del piacere sensuale, ma ci prepara anche per il momento in cui la prima freccia si manifesta fortemente. Il riconoscere che, prima o poi, è naturale che il corpo dia luogo a disagio può aiutarci a rimanere equilibrati di fronte alla sfida del dolore. Impariamo ad affrontare il dolore con equilibrio, in linea con le istruzioni citate sopra:
“[Anche se] il mio corpo è afflitto, la mia mente non sarà afflitta.”
Grazie Sandra. Dovremmo citare nella lista degli ‘impedimenti’ il sesto: Trenitalia. Di tutti il più imprevedibile.
Scherzi a parte .. Riprendendo l’articolo di Analayo tradotto nel commento di Sandra:
Questa è una citazione dal Discorso a Nakulapita (SN 22.1) potete leggerlo qui
https://letiziabaglioni.com/2017/09/27/afflitto-nel-corpo-non-nella-mente/
L’ottuplice sentiero però non prevede una semplice accettazione stoica dell’inevitabile dolore del corpo, ma include lo sviluppo attivo di una gioia e un piacere salutari, che beneficiano corpo e mente trasformando il rapporto con il dolore.
I due fattori che si sviluppano nella meditazione profonda, piti e passadhi, ossia gioia e tranquillità, conducono a un agio che si sperimenta fisicamente e che nutre la duttilità e l’energia mentale caratteristiche della retta concentrazione.
Dell’importanza di questo piacere salutare (“non mondano”, come è detto nel Satipatthana) diremo alla prossima puntata. (Sesto impedimento permettendo)
Aggiunta:
Il titolo dell’articolo del venerabile Analayo, “The challenge of pain” andrebbe tradotto, credo più fedelmente con “La sfida del dolore” (non della sofferenza). Infatti il succo sta appunto nel differenziare la sensazione sgradevole (o dolorosa) dalla sofferenza.
La prima è in una certa misura inevitabile; la seconda è evitabile e può cessare grazie al sentiero.
A quanto ne so, solo il cosiddetto buddhismo secolare sostiene una sostanziale identità fra le due cose, basandosi su una lettura univoca del termine dukkha e ridefinendo la terza nobile verità come “cessazione della reattività”.
Ma l’idea che non sia possibile superare la sofferenza, perché biologicamente parte della dimensione umana, non sembra appartenere alla logica dei Discorsi antichi.
Grazie Sandra, siamo in sincronia! senza sapere tua traduzione, avevo completato la prima parte dell’articolo “The Challenge of Pain” fino a dove inizia la parte cha hai postato. La riguardo e la inserisco fra poco. Elisabetta
Allego la traduzione della prima parte dell’articolo “The Challenge of Pain”
La sfida del dolore
Bhikkhu Anālayo
2018
Questo è l’ultimo di tre articoli su argomenti discussi nel corso del simposio su Vedana organizzato da Martine Batchelor presso il Barre Centre for Buddhist Studies dal 13 al 16 luglio 2017. Nei due precedenti numeri dell’Insight Journal ho approfondito aspetti delle sensazioni neutre e piacevoli, in questo testo mi occupo delle sensazioni dolorose.
Desiderare la liberazione
Per comprendere appieno la sfida offerta dalle sensazioni dolorose, troviamo delle indicazioni utili nel Discorso Breve con le domande e risposte, Cūḷavedalla-sutta (MN 44). In questo discorso, la venerabile bhikkhunī [monaca] Dhammadinnā spiega che l’esperienza del dolore tende ad innescare la tendenza latente all’avversione. Ciò sembra ovvio: esplorerò di seguito in dettaglio come gestire questa tendenza.
Prima di affrontare l’argomento, tuttavia, leggiamo quello che la monaca ha specificato, ovvero che non tutte le sensazioni dolorose sono collegate alla tendenza latente all’avversione. Per illustrare ciò, offre la seguente descrizione:
Qui, amica Visākha, un monaco riflette così: quando sarà possibile dimorare avendo realizzato quell’esperienza (ayatana), l’esperienza in cui i nobili dimorano, dopo averla raggiunta? Facendo suscitare desideri di questo tipo per la liberazione suprema sorgono spiacevoli sensazioni mentali, condizionate dal desiderio. Allora si abbandona l’avversione e la tendenza soggiacente all’avversione non compare.
Ritroviamo la stessa descrizione nel Discorso su un’analisi delle sfere dei sensi Saḷāyatanavibhaṅga-sutta (MN 137), che illustra la sensazione mentale spiacevole legata alla rinuncia (nekkhamma).
Nel brano del Cūḷavedalla-sutta non si dice che il desiderio per la liberazione di per sé elimini la tendenza all’avversione, ma tale desiderio serve da motivazione per dedicarci al progresso verso l’obiettivo finale, il cui raggiungimento porterà all’eliminazione delle tendenze latenti.
La presentazione nel Cūḷavedalla-sutta è interessante in quanto è in contrasto con un’opinione piuttosto comune tra praticanti e insegnanti che non si dovrebbe generare desiderio, neppure ai fini della liberazione. Da questo punto di vista, avere un desiderio come quello descritto nel Cūḷavedalla-sutta non sarebbe lodevole, e a volte potrebbe anche essere considerato espressione di avidità.
Secondo i primi discorsi, questo non è chiaramente il caso. Esattamente come non tutte le sensazioni piacevoli sono da rifuggire, non tutte le sensazioni spiacevoli sono da evitare. Alcune sensazioni mentali spiacevoli, come quelle menzionate nel brano tradotto sopra, possono sostenere l’avanzamento verso la meta finale e per questo motivo sono lodevoli.
Ciò a sua volta riflette una posizione generale sostenuta nei primi discorsi, secondo la quale non tutte le forme di desiderio sono viste come problematiche. Invece di respingere il desiderio in quanto tale, la questione diventa piuttosto: “Che effetto ha questa particolare forma di desiderio? Ci fa avanzare sulla via della liberazione oppure no?”.
Inutile dire, anche nel caso di forme appropriate di desiderio dobbiamo mantenere un equilibrio. Desiderare la liberazione e rimproverarci per non aver raggiungo la meta ultima non funziona. Ma una chiara aspirazione e un vivo desiderio di essere liberati sono lodevoli, anche se a volte questo può avere come effetto delle sensazioni spiacevoli.
Oltre all’esempio dato nel Cūḷavedalla-sutta, lo stesso principio può essere applicato al tipo di sensazioni spiacevoli che proviamo quando non riusciamo ad essere all’altezza dei nostri standard personali. È essenziale che in tali situazione noi non cerchiamo di evitare le sensazioni spiacevoli fingendo con noi stessi che non sia successo nulla o che ciò che abbiamo sbagliato non sia così importante.
Perché ci sia un autentico progresso, è cruciale riconoscere onestamente le nostre mancanze (e parimenti le nostre virtù). Tale riconoscimento innescherà inevitabilmente sensazioni spiacevoli di dissonanza cognitiva. Eppure, il disagio mentale che emerge dall’osservare il contrasto tra come vorremmo essere e come siamo realmente costituisce la base stessa del vero progresso.
Lavorando su questa base di riconoscimento autentico, possiamo imparare ad essere all’altezza dei nostri ideali. Senza un riconoscimento onesto, comunque, non sarà possibile adottare le misure appropriate per contrastare e alla fine eliminare le contaminazioni. Qui si colloca la sensazione mentale spiacevole della rinuncia, intesa in senso lato.
La freccia del dolore
Tuttavia, in contrapposizione a tali forme positive di sensazione spiacevole, altri tipi di afflizione e dolore innescano la tendenza latente all’avversione. Questo è particolarmente evidente nel caso del dolore fisico.
Nel Discorso sulla Freccia, Salla-sutta (SN 36.6), la difficile situazione di una persona con la mente non addestrata, afflitta dal dolore è illustrata con l’esempio dell’essere colpito da due frecce:
Toccato da sensazioni dolorose, un essere mondano ignorante soffre, è infelice, afflitto da tristezza e dolore, piange battendosi il petto ed è confuso; prova due tipi di sensazioni: nel corpo e nella mente. Toccato da questa sensazione dolorosa, ne è disgustato.
La similitudine delle due frecce illustra i due tipi di sensazioni: la prima freccia del dolore fisico porta alla seconda freccia della sensazione dolorosa causata dalla nostra reazione mentale al dolore.
E la storia non finisce qui. Il Salla-sutta descrive le ulteriori ripercussioni di non sapere come affrontare adeguatamente la sfida del dolore:
Toccato da sensazioni dolorose, l’essere mondano si delizia nel piacere dei sensi. Perché? Monaci, l’essere mondano ignorante non conosce una via di fuga dalle sensazioni spiacevoli che non sia il piacere sensuale.
Di fronte al dolore, la risposta della mente non allenata è volersene allontanare prima possibile. L’indulgere nel piacere dei sensi sembra essere l’unica opzione per fuggire dal dolore.
La situazione è sostanzialmente inversa per chi ha la mentre allenata. In questo caso, alla freccia del dolore fisico non segue la seconda freccia del dolore mentale. Come viene espresso sinteticamente in un consiglio dato dal Buddha ad un anziano discepolo laico in un discorso dal Saṃyutta-nikāya (SN 22.1):
Perciò, dovreste esercitarvi così: [anche se] il mio corpo è afflitto, la mia mente non sarà afflitta.
Questa breve istruzione contiene in poche parole la soluzione alla sfida del dolore. Se la mente non si affligge soffrendo e intristendosi, la seconda freccia può essere evitata.
Il Salla-sutta spiega che quando facciamo esperienza solo della sensazione corporea del dolore ma non di quella mentale, non solo non vi è avversione, ma non viene neppure innescata la risposta automatica della ricerca del piacere dei sensi. Il motivo è che conosciamo un’alternativa nel gestire le sensazioni dolorose: questa alternativa è affrontare la sfida del dolore con la mente equilibrata, anziché reagire con avversione.
Consapevolezza e Dolore
È stato recentemente provato in ambiente clinico quanto vale saper affrontare la sfida posta dal dolore per mezzo della consapevolezza.
Come spiega Jon Kabat-Zinn:
Il dolore è parte naturale dell’esperienza della vita. Soffrire è una delle molte possibili risposte al dolore … non è sempre il dolore in sé ma il modo in cui lo vediamo e in cui reagiamo ad esso che determina il grado di sofferenza che proviamo. E ciò che temiamo di più è la sofferenza, non il dolore…
Numerosi esperimenti di laboratorio con dolore acuto hanno mostrato che entrare in contatto con le sensazioni è un modo più efficace di ridurre il livello di dolore provato quando questo è intenso e prolungato, invece che cercare distrazione da esso … le dimensioni sensoriale, emotiva e cognitiva/concettuale dell’esperienza del dolore possono essere disaccoppiate … ovvero possono essere viste consapevolmente come aspetti diversi dell’esperienza… questo fenomeno di disaccoppiamento può darci nuovi gradi di libertà, riposando nella consapevolezza e mantenendo ciò che emerge in uno o in tutti i tre domini in maniera completamente diverso, riducendo drasticamente la sofferenza provata.
Nel corso del Simposio su Vedanā tenuto presso il BCBS, Sara Lazar ha presentato un esperimento di neuroimaging che dimostra concretamente il fenomeno del disaccoppiamento.
Il cervello ha un circuito che valuta la sensazione del dolore (intensità, pulsazione, formicolio, indolenzimento, ecc.) e un circuito separato associato ai pensieri e alle emozioni che riguardano il dolore.
Quando una piastra molto calda e dolorosa venne applicata sul braccio ad alcuni praticanti di meditazione esperti, l’attività del circuito correlato alla sensazione aumentò, mentre diminuì l’attività del circuito delle emozioni.
Nel gruppo di controllo formato da soggetti senza alcuna esperienza di meditazione, avvenne l’esatto opposto di quanto osservato. Anche se questi cercarono di affrontare il dolore controllandolo, in seguito riferirono dell’esperienza come molto più spiacevole rispetto alla descrizione fatta dai soggetti meditanti.
La consapevolezza è in grado di portare ad un disaccoppiamento dell’esperienza sensoriale dalla reattività emotiva; ciò si riscontra in una varietà di sintomi diversi. Secondo un sondaggio recente di Fadel Zeidan and David R. Vago:
Gli interventi basati sulle pratiche di consapevolezza migliorano la sintomatologia (emicrania, dolore pelvico cronico, sindrome dell’intestino irritabile, e altre condizioni…).
In quasi tutti gli esperimenti focalizzati su consapevolezza/dolore, la sensazione spiacevole del dolore era significativamente inferiore rispetto all’intensità del dolore.
Il potenziale della consapevolezza in questo caso è notevole e corrisponde appieno a quanto suggerito nei discorsi come il Salla-sutta.
Un aspetto cruciale sembra essere l’abilità di usare la consapevolezza per rimanere recettivi e aperti a ciò che accade senza reagire immediatamente. Ciò aiuta a diminuire e col tempo ad evitare completamente la seconda freccia del dolore mentale.
L’audio di lunedì 26 novembre è disponibile.
È disponibile l’audio di lunedì 3-12.
Al solito se trovate difetti segnalatemeli.
Ancora grazie per l’aiuto che mi date
Propongo una traduzione della prima parte dell’articolo di Analayo sugli influssi:Gli influssi e il mangiare consapevole
di Bhikkhu Anālayo
In questo articolo, studio uno dei metodi per contrastare gli influssi in relazione al mangiare consapevole. Le istruzioni per una corretta assunzione di cibo mi portano a sostenere che l’impiego della consapevolezza, nel quadro sanitario contemporaneo per migliorare la salute fisica e mentale, ha un’antecedente nel primo Buddhismo.
Gli influssi
Nei precedenti articoli di questo giornale, ho studiato i tre tipi delle sensazioni (vedanā) e la loro relazione con le tendenze latenti (anusaya). In ciò che segue, prendo in considerazione l’influsso (āsava), un altro insegnamento buddhista precoce che riguarda la descrizione di condizionamenti non salutari nella mente. L’esplorazione dei metodi per contrastare l’influsso mi porta a individuare due categorie di sensazioni, che sono collegate al mangiare.
Nel primo pensiero buddhista, gli influssi, proprio come le tendenze latenti, contengono invariabilmente delle connotazioni negative. La distruzione degli influssi, āsavakkhaya, è un termine ricorrente per l’obiettivo finale, e colui che ha raggiunto tale obiettivo è designato come khīṇāsava, colui che ha distrutto gli influssi. Entrambi i termini usati riflettono l’importanza accordata alla rimozione degli influssi nel primo schema soteriologico buddhista.
I discorsi menzionano regolarmente tre tipi di influssi:
• l’influsso della sensualità (kāmāsava),
• l’influsso del divenire (bhavāsava),
• l’influsso dell’ignoranza (avijjāsava).
Questi influssi e le tendenze latenti si sovrappongono in una certa misura nel contenuto, poiché i tre influssi sopra elencati sono simili alle seguenti tre tendenze latenti (facenti parte dell’insieme classico in numero di sette):
• la tendenza latente alla lussuria sensuale (kāmarāgānusaya),
• la tendenza latente della passione del divenire (bhavarāgānusaya),
• la tendenza latente dell’ignoranza (avijjānusaya).
Una differenza consiste nel fatto che l’elenco classico dei tre influssi parla solo di “sensualità” e “divenire”, mentre le corrispondenti tendenze latenti riguardano la “lussuria” o la “passione”, ràga, in relazione alla sensualità e al divenire.
In tempi successivi un quarto influsso venne aggiunto all’insieme tipico dei tre, che troviamo regolarmente nei primi discorsi: l’influsso delle opinioni (diṭṭhāsava). Questo influsso ha anche una contropartita nella lista classica delle tendenze latenti, la tendenza latente alle opinioni (diṭṭhānusaya).
Dato che la lista degli influssi non fa esplicitamente riferimento all’avversione o alla rabbia, forse non sorprende che i primi discorsi non mettano direttamente in relazione gli influssi con i tre tipi delle sensazioni (come fanno con le tendenze latenti).
Tuttavia, una relazione tra influssi e sensazioni si può trovare nel “Discorso su tutti gli influssi”, il Sabbāsava-sutta (MN 2). Questa relazione distingue le sensazioni in due categorie. Questa duplice distinzione differisce dalla consueta analisi delle sensazioni in tre tipi, come la troviamo per esempio nelle istruzioni sulla contemplazione delle sensazioni nel Satipaṭṭhāna-sutta. La distinzione nel Sabbāsava-sutta è tra “vecchie” e “nuove” sensazioni.
Lasciando sullo sfondo le istruzioni relative a questi due tipi di sensazioni, prima analizzerò i principali insegnamenti del discorso su come contrastare gli influssi.
Contrastare gli influssi
Il Discorso su tutti gli influssi presenta sette metodi che, in modi complementari, contribuiscono al progresso verso l’obiettivo finale di sradicare gli influssi. Le principali implicazioni di questi sette metodi sembrano essere:
• vedere le cose in termini di quattro nobili verità invece di fare speculazioni,
• custodire le porte dei sensi,
• utilizzare correttamente i propri bisogni,
• sopportare varie difficoltà,
• evitare ciò che è pericoloso e inadatto,
• rimuovere ciò che non è salutare,
• sviluppare i fattori del risveglio.
Il primo di questi metodi riguarda in particolare la necessità di evitare speculazioni legate alla nozione del sé. Invece, si dovrebbe piuttosto prestare attenzione alle quattro nobili verità. Questo metodo e la sua relazione con le visioni speculative rende abbastanza comprensibile che l’influsso delle opinioni sia stato infine aggiunto all’elenco tipico dei tre influssi. Il secondo metodo, a guardia delle porte sensoriali, è di ulteriore interesse per comprendere la nozione di un “influsso”. Secondo le istruzioni standard per custodire le porte sensoriali, il compito è quello di evitare il “fluire”, anvāssavati, di ciò che è dannoso. Il verbo usato qui sta in una stretta relazione etimologica con il termine āsava, influsso.
La descrizione di come custodire le porte sensoriali documenta quindi che la gamma di significati del termine āsava non si limita alla sfumatura di un “deflusso”. Invece, il controllo dei sensi sembra riguardare l’evitare l’influenza di fattori esterni che colpiscono negativamente la mente. Quindi l’interpretazione del termine come “influsso” sembra appropriata per trasmettere il senso generale di influenza, sia attraverso fattori esterni che attraverso ciò che si origina nella mente.
Il terzo metodo si rivolge ai bisogni di un monaco, che sono vestiti, cibo avuto in elemosina, un luogo per il riposo e le medicine, e offre consigli in relazione a ciascuno di questi. Riguardo al bisogno dell’elemosina, vengono menzionati i due tipi di sensazioni, che esplorerò più in dettaglio dopo aver completato la mia indagine sui sette metodi.
Il quarto metodo richiede che si sopporti pazientemente le variazioni del clima e vari tipi di disagio; il quinto riguarda l’evitare ciò che è pericoloso, come animali selvaggi e luoghi pericolosi.
Il sesto e il settimo metodo riguardano la coltivazione meditativa della mente, che richiede che si superi quello che non è salutare (il sesto) e si coltivino i fattori del risveglio (il settimo).
Riflessione sul cibo
Ritornando al terzo di questi sette metodi, il Discorso su tutte gli influssi (MN 2) offre la seguente riflessione per contrastare gli influssi quando si mangia del cibo:
Riflettendo saggiamente mangia un po’ del cibo dato in elemosina: non per divertimento, non per ubriacarsi, non per abbellimento, e non per diventare attraente, ma solo per il sostegno e il sostentamento di questo corpo, per tenerlo libero dal male e per sostenere la vita casta: “Così estinguo le vecchie sensazioni senza suscitare nuove sensazioni, e sarò in salute, senza colpa e vivrò a mio agio”.
In questo modo, anche un’attività ordinaria come il mangiare può essere trasformata in una pratica che conduce verso l’obiettivo finale della piena liberazione, sradicando gli influssi. Il compito qui è principalmente quello di prendere il cibo con la motivazione di fornire sostentamento al corpo piuttosto che per far godere le papille gustative.
La distinzione tra sensazione antica e nuova può essere arricchita con l’aiuto dell’esegesi commentaristica data nel Sentiero della purificazione, il Visuddimagga. Secondo la sua spiegazione, l’espressione “vecchie sensazioni” si riferisce alla fame e il riferimento alle “nuove sensazioni” riguarda il disagio derivante dall’eccesso di cibo.
Per apprezzare questa indicazione è utile tenere presente la situazione di un monaco buddhista nell’ambientazione dell’antica India. Essendo mendicanti erranti, i monaci buddhisti vivevano in una situazione di incertezza costante per il loro prossimo pasto. Un giorno potrebbe essere loro offerta un’abbondanza di cibo, ma il giorno successivo potrebbero riceverne molto poco.
Essendo loro vietato di conservare il cibo durante la notte, potrebbe naturalmente esserci la tentazione di riempirsi e di mangiare troppo, quando l’occasione lo permette, per soffrire meno se il cibo, nel turno di elemosina del giorno successivo, dovesse essere scarso. Da qui la necessità di fare attenzione a far sorgere il nuovo tipo di sensazione che risulterebbe se ci si arrendesse a questa tentazione.
Al solito indirizzo trovate l’audio dell’incontro di lunedì 5 novembre a Mestre.
Se riscontrate qualche difetto segnalatemelo.
Grazie Giorgio, tutto ok la qualità dell’audio è molto buona.
Grazie a tutti, aggiungo la traduzione delle prime due pagine, 21-22, del discorso di Analayo sulle tendenze latenti. La traduzione di alcuni termini forse deve essere migliorata: defilement (che ho reso con “contaminazione”), stream-entry (qui “entrata nella corrente”) e arhnt (qui risvegliato).
Mi unisco così al blog. Provo anche postare l’immagine un’opera di un artista che realizza in vetro le bolle d’acqua sull’acqua, mostrando metaforicamente la tendenza . a dare sostanza alle sensazioni.
Da oggi non potrò partecipare al laboratorio per un piccolo problema di salute, ma seguirò le registrazioni e avrò più tempo da dedicare alle traduzioni
Le tendenze latenti. Nei tre precedenti articoli di questa rivista, ho menzionato la relazione tra tre tipi di sentimenti e le tendenze latenti, definita nel Discorso Breve con le Domande e Risposte, Cūḷavedalla-sutta (MN 44). Qui di seguito esaminerò ulteriormente questo rapporto. Il termine Pāli per “tendenza latente” è “anusaya”, che contiene il senso di qualcosa di soggiacente, una disposizione inattiva o tendenza della mente. Il modo in cui è utilizzato il termine “anusaya” nei primi discorsi contiene inevitabilmente delle connotazioni negative. Data la loro natura inattiva e le risonanze invariabilmente negative, la domanda centrale che mi porrò durante la mia esplorazione sarà come superare l’influsso di queste tendenze non salutari.
Il termine “anusaya” compare nei discorsi con o senza ulteriori specificazioni. Nei versi del Suttanipāta, ad esempio, il termine compare da solo e porta con sé un significato generale, senza alcun riferimento ad una particolare contaminazione [defilement]. Altrove i discorsi menzionano tendenze latenti più specifiche. Un esempio è il Grande discorso a Māluṅkyaputta, che associa le tendenze latenti ad un’idea di personalità, sakkāyadiṭṭhānusaya. E’la tendenza dell’essere mondano non risvegliato di costruire un sé in relazione ai cinque aggregati dell’attaccamento. Nello stesso discorso si fa riferimento anche alla tendenza latente ad attaccarsi in modo dogmatico a regole e pratiche. Tale attaccamento dogmatico non è un problema unicamente per quelli che praticano al di fuori della dispensa del Buddha. Un verso del Dhammapada (Dhp 271) ingiunge che un monaco Buddhista non dovrebbe accontentarsi delle mere regole e pratiche (sīlabbata) e che dovrebbe invece praticare per la distruzione degli influssi (āsava). Ciò mostra che l’espressione sīlabbata si può riferire anche alle regole e alle pratiche Buddhiste.
Ne segue che la tendenza ad attaccarvisi dogmaticamente può essere un ostacolo anche per i praticanti buddhisti. Come la tendenza latente ad un’idea di personalità, l’attaccamento dogmatico alle regole e alle pratiche potrà essere sradicato solo quando l’impedimento corrispondente (saṃyojana) è stato sradicato con il raggiungimento dell’”entrata nella corrente” Così, benché le tendenze soggiacenti siano natura latente e perciò non sembrano riconducibili alla contemplazione diretta, il progresso della chiara visione condurrà al loro sradicamento. Ottenuto il pieno risveglio, nessuna tendenza soggiacente sarà in grado di influenzare la mente. In altri termini, il percorso per divenire arahant (risvegliato) porta alla liberazione dalle tendenze latenti.
L’audio di lunedì 12 novembre è disponibile al solito indirizzo.
Grazie per l’audio così ho potuto seguire gli scambi. Ho completato la traduzione dell’articolo sul Mangiare in consapevolezza iniziato da Sandra. L’articolo sembra scritto con la stessa attenzione che si suggerisce di porre al cibo. Masticando ogni boccone senza anticipare il successivo. Noto a volte la mia tendenza a riassumere e sono grata per l’occasione di pratica offerta dal tradurre testi Buddhisti, la cui forma stessa è insegnamento di consapevolezza.
Mangiare in consapevolezza
Il Discorso su tutti gli influssi riguarda essenzialmente il percorso monastico verso il risveglio. Lo si capisce nei riferimenti al “cibo delle elemosinee” nel brano citato sopra, e alla vita celibe (brahmacariya). Ciò non significa comunque che il bisogno di conoscere la giusta misura nel mangiare non fosse espresso anche nelle istruzioni date ai discepoli laici.
Se ne trova un esempio in un discorso Saṃyutta-nikāya che riferisce di una visita del re Pasenadi al Buddha […]. Il re aveva esagerato nel mangiare e ansimava. Vedendolo in questo stato, il Buddha pronunciò i seguenti versi:
Coloro che sono costantemente consapevoli,
sanno moderarsi con il cibo che hanno ricevuto.
Le loro sensazioni si attenuano:
invecchiano lentamente e conservano la loro longevità.
Come nella riflessione sul cibo rivolta ai monaci, in questi versi si fa riferimento alle sensazioni. L’idea di attenuare le sensazioni può essere intesa intendere come la capacità di superare le vecchie sensazioni senza farne sorgere di nuove. Sembra quindi che la ragionevole preoccupazione di placare la sensazione di fame non debba prevalere al punto da innescare sensazioni derivanti da un eccesso di cibo.
È significativo che nei versi citati si specifichi la necessità della consapevolezza. La stessa cosa è implicita nella classica riflessione sul cibo, dato che la presenza della consapevolezza assicura che il corpo abbia il giusto sostentamento, senza che ciò porti intossicazione.
Viene richiesta, come si legge nel verso, “costante” consapevolezza. Se la consapevolezza è presente costantemente durante il pasto, si noterà chiaramente quando la giusta misura è stata raggiunta, quando abbiamo ingerito cibo sufficiente e dobbiamo fermarci. La costante consapevolezza ci aiuta inoltre a masticare correttamente, a non ingoiare un boccone intero e, prima ancora che questo sia stato assimilato, essere già protesi verso il successivo.
Va rilevata la generale preoccupazione di questi versi per i benefici mondani. Benché il re Pasenadi fosse un discepolo del Buddha, il verso non si riferisce agli insegnamenti dottrinali centrali del primo Buddhismo, né esprime una chiara ed esplicita relazione al processo di risveglio (diversamente dalla riflessione sul cibo nel discorso su Tutti gli Influssi). Al contrario, qui lo scopo centrale della pratica di consapevolezza è chiaramente il miglioramento della salute.
Il discorso Saṃyutta-nikāya continua dopo i versi citati riportando che Pasenadi pagava regolarmente un giovane, presente in quell’occasione, perché memorizzasse i versi e li recitasse ad ogni pasto del re. L’effetto dell’essere rammentato regolarmente dei vantaggi dell’alimentarsi consapevolmente fu la graduale perdita di peso del re, che espresse la sua riconoscenza al Buddha per dargli beneficio nel presente e nel futuro.
Così, i versi del Buddha sullo stabilire la consapevolezza per contrastare l’eccesso nel mangiare portarono ad una riduzione del peso per il re Pasenadi.
A questo discorso Pāli corrispondono due Āgama cinesi. Vi è una piccola differenza rispetto ai versi del Buddha: invece del riferimento ad un invecchiamento più lento, nei due testi cinesi si parla di buona digestione come effetto del mangiare in consapevolezza. Di fatto, il termine jīrati può significare sia “invecchiare” che “digerire”, quindi si tratta probabilmente di una semplice differenza interpretativa.
Mindfulness-Based Interventions (MBIs)
Interventi basati sulla consapevolezza
Il discorso al re Pasenadi mostra che già nell’antico contesto indiano venivano date istruzioni sulla consapevolezza con il chiaro intento di portare beneficio alla salute mondana. Non solo è tramandato che il Buddha avesse elaborato una pratica basata sulla consapevolezza (Mindfulness based) per ridurre la sovralimentazione e che portasse ad una sicura riduzione del peso, ma leggiamo addirittura di un formatore che viene pagato regolarmente per dare istruzioni relative a tale pratica. Questo episodio, come è stato documentato nei primi discorsi, offre un precedente per le attuali pratiche di Mindfulness focalizzate sulla salute fisica.
Non occorre dire che la riduzione del peso è solo un aspetto marginale del primo pensiero Buddhista. L’interesse generale delle pratiche di consapevolezza è il processo di liberazione. La presentazione nel Discorso su Tutti gli Influssi illustra che la questione del mangiare (che qui non è neppure collegata alla riduzione del peso) è solo uno degli aspetti di uno dei sette metodi per contrastare gli influssi.
La marginalità del ruolo della consapevolezza a tale proposito potrebbe essere il motivo per cui le implicazioni delle istruzioni al re Pasenadi non abbiano finora ricevuto finora l’attenzione che meritano.
La scoperta di questo antecedente delle attuali pratiche basate sulla consapevolezza (mindfulness-based) mette nella giusta prospettiva l’impressione piuttosto comune che l’uso della consapevolezza nei nostri giorni per questioni di salute implica un allontanamento radicale dal pensiero Buddhista, se non addirittura un uso indebito del pensiero religioso per scopi secolari.
Ad esempio, in Mindful America la monografia innovativa di Jeff Wilson sui diversi aspetti della diffusione attuale della consapevolezza in contesti secolari, l’autore sostiene che:
Gli insegnamenti presenti nella recente letteratura occidentale sul mangiare in consapevolezza, rappresentano un’applicazione radicalmente nuova del Buddhismo (benché sia di solito presentata come tradizionale)
Tale impressione e critiche di questo tipo sono comprensibili, soprattutto alla luce di alcuni spiacevoli sviluppi dell’attuale clamore intorno alla mindfulness. Tuttavia, per quanto riguarda interventi autentici in ambiente clinico, educativo, ecc, le istruzioni date al re Pasenadi dovrebbero aiutare a dissipare sospetti di questo tipo.
I versi sul mangiare in consapevolezza e il loro effetto chiarirebbero che sono in linea con l’atteggiamento del Buddha, come è trasmesso dai testi, nei confronti della consapevolezza se usata in tal modo.
Grazie Elisabetta! Hai ragione: lo stesso atteggiamento del mangiare consapevole si può applicare alle traduzioni (e a molte altre attività dove è necessario tenere a bada la fretta e l’impazienza). Avete notato che le sensazioni legate al mangiare sono di vario tipo, e ce ne sono molte sgradevoli? Anche il buon sapore di un cibo in genere è notato per un istante, e si passa subito a qualcos altro. Parlando come qualcuno che volentieri userebbe le ‘pillole dell’astronauta’ invece di cucinare, e che trova estremamente difficile sedere a tavola, e sgradevole l’atto del masticare, direi che la tolleranza della sensazione sgradevole è importante se si vuole mangiare in consapevolezza. Che pensate?
A dire la verità Letizia, difficilmente provo sensazioni sgradevoli nel cibo, a meno che sia costretta ad ingerire una medicina o qualcosa di poco appetibile. Tuttalpiù provo sensazioni neutre nella masticazione, ampiamente superate però da quelle piacevoli del sapore del cibo e spesso mi ritrovo a mangiare non solo “per il sostegno ed il sostentamento del corpo” ma anche “per far godere le papille gustative” (come dice Analayo). La consapevolezza mi aiuta a contenere questo atteggiamento entro limiti accettabili.
Mi sembra che torni a proposito un brano a pagina 5 di uno degli ultimi due articoli di Analayo che hai postato, “Il potenziale delle sensazioni piacevoli”:
“Anche prima di diventare un arahant, non essendo afferranti dal tipo di nimitta che è correlato alle contaminazioni, la mente può emergere almeno temporaneamente dall’essere sotto il controllo di ciò che accade alle porte dei sensi. In questo modo diventa possibile mantenere un equilibrio interiore e centrato che, almeno in una certa misura, emula la libertà interiore degli arahant.
Ciò può essere ottenuto in particolare attraverso la coltivazione della consapevolezza. Qualunque cosa sia vista può essere ricevuta semplicemente con la consapevolezza di ciò che è visto.”
A questo punto proseguo la traduzione del testo che riguarda le sensazioni piacevoli in generale:
La presenza di questa consapevolezza ricettiva previene la tendenza della mente di lanciarsi in valutazioni distorte e quindi di proliferare.
Come risultato dell’essere ben radicati nella consapevolezza in questo modo, sorge una sottile forma di felicità. Questa felicità è davvero “intatta”, in particolare non danneggiata o rovinata dall’impatto delle contaminazioni che tingono l’esperienza con pregiudizi e proliferazioni.
Una tale felicità senza impedimenti costruisce a sua volta le fondamenta per le forme profonde di felicità che si ottengono attraverso il raggiungimento dell’assorbimento, il jhāna, descritto successivamente al contenimento dei sensi nei resoconti tipici del percorso graduale. Questo è precisamente il tipo di felicità che il futuro Buddha avrebbe ricordato, dopo aver scoperto che il suo ascetismo era stato senza frutto. Tale felicità non deve essere temuta.
Implicazioni pratiche
Dal punto di vista della pratica, le indicazioni che possono essere raccolte in questo modo per quanto riguarda l’esperienza del piacere e della felicità mettono in prospettiva la tendenza a pensare che, fino a quando la nostra pratica è davvero faticosa e impegnativa, ci condurrà in avanti sulla via della liberazione. Non è necessariamente questo il caso. Lo sforzo e la dedizione sono requisiti importanti per i progressi nella pratica della meditazione, senza dubbio, ma questi si ottengono meglio in compagnia di un atteggiamento non troppo invadente o orientato a degli obiettivi.
L’opposto sentimento di auto-indulgenza che miri allo scopo di sentirsi bene, ugualmente non è tale da essere considerato lodevole. La felicità e il piacere devono essere di tipo salutare per essere produttivi di una crescita e di un miglioramento personale genuini.
Allora nella pratica, la domanda diventa: il tipo di piacere e felicità, che sto vivendo ora, conduce all’equanimità e alla libertà? O mi conduce piuttosto più in profondità nella schiavitù e nel dukkha?
La prospettiva della psicologia cognitiva
La progressiva raffinatezza della felicità nel Kandaraka-sutta dimostra che una coltivazione intelligente della spinta fondamentale verso il piacere, innata negli esseri umani, può essere sfruttata per il progresso verso la liberazione. Il significato di questa indicazione può essere ulteriormente esplorato con l’aiuto di recenti ricerche nella psicologia cognitiva.
Durante il simposio Vedanā tenuto presso la BCBS, Judson Brewer ha attirato la nostra attenzione sui meccanismi neurali di base acquisiti durante l’evoluzione delle specie, che sono responsabili di assicurare che venga perseguita la soddisfazione di un possibile nutrimento e siano evitate potenziali fonti di pericolo.
Nella nostra cultura moderna, questi stessi meccanismi possono portare a comportamenti di dipendenza di vario tipo. Le sensazioni piacevoli provate quando si assumono sostanze intossicanti o si praticano altri tipi di comportamenti di dipendenza portano alla formazione di abitudini corrispondenti. Ogni momento di indulgenza suscita la sensazione di piacere gratificante e quindi rafforza l’abitudine. Segue un circolo vizioso difficile da interrompere.
Tuttavia, lo stesso principio dell’apprendimento basato sulla ricompensa può anche essere usato in altri modi. Un rafforzamento positivo può essere realizzato attraverso la coltivazione intenzionale della mente, in particolare se ciò avviene secondo le linee che emergono dai passaggi del discorso discussi sopra.
Ecco il link a un nuovo articolo di Bhikkhu Anālayo “The Influxes and Mindful Eating”, che forse può interessare qualcuno di voi.
Riprende il tema degli ‘influssi’ e delle tendenze latenti, in particolare in relazione a un luogo dei sutta che tratta il tema del mangiare consapevolmente …
https://www.buddhistinquiry.org/article/the-influxes-and-mindful-eating/
Grazie infinite a tutti coloro che con le loro traduzioni e i loro commenti sono di grande aiuto
Grazie per la precisazione. In effetti mi era sorto il dubbio e avevo pensato di chiamarti.
Continuo ora con i passi successivi su Le tendenze latenti e la sensazione (p.25/26), arrivando al punto in cui l’articolo di Analayo prosegue nella traduzione di Sebastiano.
Analayo cita il Chachakka-sutta (MN148), in cui il Buddha spiega che la tendenza latente al desiderio sensoriale è presente in chi, “toccato da una sensazione piacevole, gioisce in essa, le dà il benvenuto, e persiste nell’aggrapparsi a essa… toccato da una sensazione dolorosa, si affligge, si dispera, si sente infelice, si lamenta battendosi il petto, e si sente confuso…. toccato da una sensazione neutra, non comprende il sorgere, il passare, la gratificazione, lo svantaggio e il lasciare andare in relazione a quella sensazione”.
[…] Chiaramente, superare queste tendenze latenti è questione di considerevole importanza. Tuttavia, resta la domanda: come è possibile superare qualcosa che non è direttamente osservabile, qualcosa che si può conoscere solo attraverso le sue ripercussioni sull’esperienza che facciamo di questi tre tipi di sensazioni?
Il problema è che la nostra reazione alle sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre mediante desiderio sensoriale, avversione e ignoranza non è qualcosa che decidiamo intenzionalmente. Reagiamo semplicemente in un modo piuttosto automatico e abbastanza spesso ci rendiamo conto solo in un momento successivo di avere subito l’influsso di una di queste tre tendenze latenti. Sembra quindi indispensabile un qualche genere di addestramento della mente al fine di emergere da questi automatismi. Fortunatamente, i discorsi del Samyutta-nikaya ci indicano il tipo di “insight” meditativo che è necessario coltivare a tale scopo.
In questo caso è meglio tradurre “diventa una base per lo stabilirsi della coscienza” (non della ‘consapevolezza’ altrimenti si confonde con i Satipatthana) nel senso che la coscienza per emergere ha bisogno di un oggetto e sono le tendenze latenti a determinarlo inconsciamente. Il cuore di un arahant è libero dalle tendenze latenti per cui nel suo caso la coscienza non si stabilisce in nessun luogo (ossia,non c’è rinascita).
AGGIUNTA: Per comprendere meglio il significato di ‘base’ o ‘supporto’ per la coscienza pensiamo alla similitudine contenuta nel Samyutta Nikaya 22 (khandha samyutta) secondo cui:
La coscienza è paragonabile ai cinque tipi di piante che si producono da semi. Gli altri 4 khandha (forma, sensazioni, percezioni, volizioni/costrutti) sono come il terreno in cui il seme si impianta, e l’interesse/attaccamento è come l’acqua https://suttacentral.net/sn22.54/en/sujato
Mondo (khandha) e coscienza co-emergono. Finché la coscienza si impianta su qualcosa, cresce e si riproduce come una pianta. Se manca l’acqua, o se non trova terreno, il seme non “si impianta”, la pianta non cresce e non si riproduce.
Traduco alcuni passi dall’articolo di Analayo sulle tendenze latenti che precedono le pagine tradotte da Sebastiano.
Come operano le tendenze latenti (p.23-24)
Un discorso del Samyutta-nikaya (SN12.38) sottolinea la natura in qualche modo subliminale delle tendenze latenti. Esso mostra che l’operare di un anusaya è distinto dalle intenzioni e dal pianificare. Tema principale del discorso è l’esplorazione degli oggetti attraverso i quali si fonda la consapevolezza.
Il passaggio rilevante è il seguente:
Monaci, ciò verso cui si dirige l’intenzione, ciò che si pianifica, ciò verso cui si ha una tendenza latente, questo diviene l’oggetto per il fondamento della consapevolezza….
Monaci, se non ci sono intenzioni né programmi, e tuttavia c’è una tendenza latente, allora questa diviene l’oggetto per il fondamento della consapevolezza…
Monaci, se non ci sono intenzioni né programmi, e non si ha una tendenza latente, allora non ci sarà alcun oggetto per il fondamento della consapevolezza…
La seconda di queste tre alternative afferma che la consapevolezza può assumere come oggetto ciò verso cui si ha soltanto una tendenza latente. E’ sufficiente questo, senza alcun bisogno di una intenzione attiva e pianificante. L’indicazione data descrive la natura delle tendenze latenti come qualcosa di subliminale nella mente.
Pur senza l’attivazione dell’intenzione una tendenza latente può avere un impatto sulla coscienza.
Secondo il Grande Discorso a Malunkyaputta, il Mahamalunkya-sutta (MN64), le tendenze latenti sono presenti perfino in un neonato. Nel caso della tendenza latente al desiderio sensoriale, il passo più rilevante spiega:
Un bambino piccolo e innocente sdraiato sulla schiena non possiede [la nozione di] “sensualità”, come potrebbe quindi sorgere in lui il desiderio sensoriale in relazione a oggetti dei sensi? Eppure esiste in lui la tendenza latente al desiderio sensoriale…
[…..] Come può qualcosa di decisamente non salutare essere in qualche modo sempre presente nella mente, anche quando non è manifesta nessuna condizione mentale non salutare e la mente è in uno stato salutare?
Grazie mille per le traduzioni! Non sapendo bene che cosa fossero le “tendenze latenti”, ho cercato una definizione; nel glossario de “La rivelazione del Buddha” dei Meridiani, ho trovato quanto segue:
Anusaya: “propensione”, “inclinazione”. Si riferisce a una tendenza latente nella personalità di un individuo che diviene operante e in grado di produrre conseguenze morali. Gli anusaya sono sette: 1- attaccamento all’esistenza; 2- attaccamento agli oggetti del desiderio; 3- ostilità; 4- orgoglio; 5- nescienza; 6- opinione erronea; 7- dubbio. Essi vengono generalmente messi in relazione con le sei “afflizioni” (kilesa), con gli stati di possessione o passioni pervadenti (pariyutthana) – di cui sono per così dire l’espressione seminale – e con gli influssi impuri (asava)”.
Letto questo, mi rimane oscuro il legame tra “sensazione” e “tendenza latente”.
Breve riflessione sulla pratica: osservando il sorgere e lo svanire della sensazione ho riconosciuto l’importante ruolo della MEMORIA; cioè, un contributo al piacere o al non piacere è dato dalla memoria che tale sensazione suscita. Questo mi ha fatto venire in mente un brano, molto famoso, tratto da La Recherche di Marcel Proust, dove l’autore descrive, indagandola, la sensazione che prova assaggiando un biscotto che gli rievoca un episodio della sua infanzia; questa rievocazione gli procura un immenso piacere, tanto che cerca di prolungarlo, continuando a mangiare il biscotto. Ma un ricordo è a sua volta una sensazione?
Roberta
“Ma un ricordo è a sua volta una sensazione?”
Un ricordo appartiene al gruppo della percezione o dei significati, ma come giustamente osservi tu sorge insieme alla sensazione e la condiziona. Ma la percezione è impermanente… ecco perché la psicoterapia ad esempio modificando il senso dei ricordi traumatici li rende neutri o meno dolorosi o addirittura piacevoli.
Ringrazio tutti quelli che hanno pubblicato commenti e Sebastiano per le preziose traduzioni. Buona pratica.
Solo un grazie a tutti per esserci ritrovati nella pratica
Ho aggiornato la pagina con il link all’articolo di Analayo sulle tendenze latenti (anusaya) che aiuta a comprendere meglio il riferimento che troviamo nel Salla Sutta (Discorso sulla freccia).
Come sempre riassunti e traduzioni dell’articolo sono benvenuti nei commenti! Come pure domande!
Ho anche aggiunto un documento di Appunti con gli spunti di pratica per la settimana.
Vi propongo la traduzione di alcuni passi tratti dall’articolo di Analayo sulle tendenze latenti (pp. 26-29):
Le tendenze latenti e la chiara visione [Insight]
Un discorso nel Samyutta-nikaya (SN 35.58) collega il superamento delle tendenze latenti alla coltivazione della chiara visione. Nel caso delle esperienze visive, ciò assume la seguente forma:
“[…] Conoscendo e vedendo come impermanente qualunque cosa sorta in dipendenza dal contatto dell’occhio e sentita come piacevole, spiacevole e neutra, le tendenze latenti sono abbandonate.”
Secondo questo passo, il superamento delle tendenze latenti richiede di stabilire la chiara visione dell’impermanenza. […] Viste come impermanenti, le sensazioni sono spogliate di una parte considerevole del loro potenziale di reattività. […] Questa chiara visione contrasta l’impatto delle tendenze latenti, che altrimenti operano al di fuori del nostro controllo cosciente. […]
Sotto questo aspetto, l’elemento chiave sembra essere un rallentamento della reattività mentale. Invece di reagire sul momento, ci si concede un tempo sufficiente […] per la cruciale visione della natura impermanente di tutti gli aspetti dell’esperienza presente […].
Le tendenze latenti e la presenza mentale
Sotto questo aspetto, la pratica della meditazione satipatthana sembra essere particolarmente rilevante. Secondo le istruzioni fornite nel Satipatthana-sutta (MN 10), il compito della presenza mentale con riferimento alle sensazioni è anzitutto riconoscere chiaramente la loro qualità affettiva. Quando sperimentiamo una sensazione piacevole, ad esempio, dovremmo riconoscerla chiaramente come se ci dicessimo: “sto sperimentando una sensazione piacevole”. Lo stesso vale per gli altri due tipi di sensazioni.
Oltre alla distinzione tra sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre, il Satipatthana-sutta distingue ciascuna di esse in mondane e non mondane. Nel caso delle sensazioni piacevoli, un discorso nel Samyutta-nikaya spiega che le sensazioni piacevoli mondane sono quelle legate alle sensualità (SN 36.29). Queste sensazioni piacevoli mondane sono ovviamente correlate alla tendenza latente al desiderio sensuale, come stabilito dal Discorso Breve con Domande e Risposte, il Culavedalla-sutta (MN 44). Un esempio di sensazioni piacevoli non mondane fornito nel discorso del Samyutta-nikaya è la felicità dell’assorbimento. Secondo il Culavedalla-sutta (MN 44), tale felicità non è collegata alla tendenza latente al desiderio sensuale.
In questo modo, le istruzioni fornite nel Satipatthana-sutta per la contemplazione delle sensazioni come mondane o non mondane possono essere comprese come un’indicazione della necessità di riconoscere non solo il tono affettivo di una particolare sensazione, ma anche la sua potenziale relazione con una tendenza latente.
Su questa comprensione si basa un’istruzione che si trova nella sezione del Satipatthana-sutta alla quale mi piace riferirmi come al “ritornello” [refrain]. Secondo questa istruzione, ogni sensazione dovrebbe essere contemplata in conformità alla sua natura, che è di sorgere e di cessare. Ciò indica l’impermanenza, la chiara visione che, secondo il discorso del Samyutta-nikaya menzionato sopra, può portare a un superamento delle tendenze latenti.
grazie Sebastiano.
Che tono ha la parola RICEVERE?
Se lascio cadere nel corpo la parola RICEVERE accompagnandomi con la presenza mentale mi capita , a volte, una capriola, , una sorta di capovolgimento , uno spostamento nello spazio , passando da davanti a dietro, da fuori a dentro, da sopra a sotto, senza perdere di vista il davanti, il fuori, il sopra.
Si genera quindi un moto rivoluzionario, cioè un moto intorno all’asse, nutrendo l’abilità della possibilità di una visione d’insieme.
Il tono della parola RICEVERE allora può assumere varie sfumature: morbido, soffice, vasto.
Grazie Sebastiano!
Ho aggiornato la pagina con il link a un articolo di Analayo sulle sensazioni neutre. Chi di voi conosce l’inglese potrebbe tradurne o riassumerne qualche punto essenziale e postarlo nei commenti! Anche a puntate ….
Ho aggiornato la pagina con gli Appunti, riassumendo gli spunti di pratica trattati ieri e suggeriti per la settimana.
Ho inserito il link al sutta citato da Iaia sulla sensazione dolorosa (L’abisso senza fondo)
Su suggerimento di Letizia, vi propongo la traduzione di un brano tratto dall’articolo di Analayo sulle sensazioni neutre (pp. 7-9):
Le tendenze latenti
La relazione tra la sensazione e le tendenze latenti è uno dei diversi temi affrontati nel Discorso Breve con Domande e Risposte, Culavedalla-sutta (MN 44). […]
Questo discorso consiste in una serie di domande poste […] alla monaca Dhammadinna. Il passo rilevante riporta una delle spiegazioni date dalla saggia monaca nel modo seguente:
“[N]el caso della sensazione piacevole, la persistenza è piacevole e il cambiamento è doloroso. Nel caso della sensazione dolorosa la persistenza è dolorosa e il cambiamento è piacevole. Nel caso della sensazione neutra la conoscenza è piacevole e la non conoscenza è dolorosa.”
[…] [L]’insegnamento offerto in questo passo indica la necessità di conoscere le sensazioni neutre per come sono veramente, ed è tale conoscenza ad essere piacevole. […]
Nel caso della sensazione neutra, il piacere viene dal conoscerla. In pratica, stare semplicemente con la conoscenza della sensazione nel momento presente può diventare una fonte di gioia. Questa è una forma piuttosto sottile di gioia che può essere coltivata atttraverso la pratica sostenuta della presenza mentale.
La sensazione neutra è un punto di partenza particolarmente utile per tale pratica, a causa della sua natura delicata. Un buon esempio è l’essere consapevoli del respiro. Solitamente il significato sentito [felt sense] delle inspirazioni e delle espirazioni ha una tonalità neutra. Questa neutralità affettiva è precisamente il motivo per cui il respiro normale non è di solito notato dalla mente, tanto da rendere necessari uno sforzo intenzionale e un addestramento per esserne consapevoli; di per sé il respiro semplicemente non attrae la nostra attenzione.
Dirigendo la presenza mentale al respiro e mantenendola lì in modo gentile, sorgono piacere e gioia. Queste non sono sensazioni causate dal respiro stesso. Piuttosto, sono sensazioni piacevoli che derivano dalla coltivazione della presenza mentale.
Se manca la presenza mentale, la delicatezza della sensazione neutra tende a spingere alla ricerca di qualcos’altro che sia più stimolante. La mente diventa annoiata e vuole qualcosa di più eccitante.
Questo è ciò che rende dolorosa, o forse meglio “spiacevole”, la non conoscenza delle sensazioni neutre, nel senso che la noia è in effetti un tipo di spiacevolezza.
È per questa ragione che la monaca Dhammadinna mette in relazione la sensazione neutra con la tendenza latente all’ignoranza. Mentre le sensazioni piacevoli sono correlate alla tendenza latente al piacere e le sensazioni dolorose (o spiacevoli) alla tendenza latente all’avversione, quando ci si trova di fronte alla tonalità delicata delle sensazioni neutre la reazione normale consiste precisamente in questo: ignorale!
Grazie Sebastiano
Grazie della precisazione Letizia, il testo contiene spunti davvero interessanti.
Nel postare il primo commento voglio innanzitutto correggere un riferimento fatto en passant durante il primo incontro del Laboratorio al “Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese”: per errore ho detto ISTAT (che pure pubblica un rapporto annuale sulla situazione del Paese), ma si tratta del Rapporto del CENSIS
Di seguito alcuni stralci dal Rapporto 2018:
“La ripresa c’è e l’industria va, ma cresce l’Italia del rancore”.
“L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica”.
“Dopo gli anni del severo scrutinio dei consumi, torna il primato dello stile di vita e del benessere soggettivo, dall’estetica al tempo libero. La somma delle piccole cose che contano genera la felicità quotidiana: è un coccolarsi di massa. Ecco perché il 78,2% degli italiani si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce”.
“Un immaginario collettivo senza forza propulsiva … L’immaginario collettivo è l’insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuali e i percorsi esistenziali di ciascuno, quindi di definire un’agenda sociale condivisa”
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“L’immaginario collettivo ha perso la forza propulsiva di una volta e non c’è un’agenda sociale condivisa. Ecco perché risentimento e nostalgia condizionano la domanda politica di chi è rimasto indietro”.
“La paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials. Allora si rimarcano le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica” …
Ecco: una ragione di più per praticare il Dhamma!
Carissima Letiza, grazie. A volte penso che questo “coccolarsi” di massa (che non appartiene solo agli italiani), che deriva dal concentrare le attenzioni e l’impegno quasi solo nei confronti di sé stessi, sia una delle conseguenze del malintendimento, stile New Age, dell’attenzione posta dalle filosofie orientali, compreso il Buddismo, sul singolo individuo e sull’importanza della “felicità individuale”. Credo che una lettura superficiale, molto superficiale e parziale di queste tradizioni millenarie, unita, naturalmente, ad altri fattori socio-politici–economici contingenti, stia diffondendo una mentalità egoista, nell’illusione che il proprio benessere individuale, spesso purtroppo scevro da scelte etiche, possa da solo diventare propulsione per il benessere collettivo. Sappiamo bene che non è così, ma l’illusione che lo sia è molto comoda. Non è facile andare in controtendenza, perché la profondità nella conoscenza che indurrebbe allo studio approfondito di filosofie e tecniche per la mente, non è più un valore collettivo. Non vorrei sembrare troppo pessimista, ma sempre più spesso mi sento impotente di fronte a questa mentalità diffusa del “libera la tua mente e troverai la felicità”, che nei social network impazza e domina. E’ un tema molto complesso, importantissimo e per questo ti ringrazio di collegare sempre la pratica con la realtà sociale contemporanea.
roberta bravin
“Non è facile andare in controtendenza, perché la profondità nella conoscenza che indurrebbe allo studio approfondito di filosofie e tecniche per la mente, non è più un valore collettivo”.
Ciao Roberta, grazie per il commento. Potresti dire qualcosa in più su questo pensiero? Vorrei capire meglio. Intendi che l’approfondimento di un sapere, in generale, non è più un valore collettivo, o c’è qualcosa di specifico rispetto ai ‘saperi circa la mente?’
In realtà mi sono espressa male, un po’ frettolosamente. Nella contemporaneità la conoscenza specialistica, e quindi estremamente approfondita e dettagliata di un sapere, in particolare scientifico, è certamente un valore diffuso (anche se con le conseguenze non sempre “salutari” che comporta, come la svalutazione di quei saperi, ad esempio umanistici, che si fondano piuttosto sulla trasversalità della conoscenza e sull’interazione tra i saperi stessi). Nel mio breve commento intendevo che a livello di massa, nell’opinione comune New Age, per usare un’etichetta, è sufficiente conoscere qualche tecnica mentale per ottenere un po’ di benessere e fermarsi lì, senza la necessità di approfondire il contesto culturale in cui tali tecniche sono nate e comprenderne gli scopi. Gli slogan che circolano sul tema “tecniche orientali”, come dicevo soprattutto nei social, ruotano attorno al benessere personale raggiungibile con l’uso di meditazione, yoga ecc, come se questo garantisse poi giustizia sociale e risoluzione di problemi collettivi. Ecco, questa mi pare una grande illusione. Il tema in realtà è complesso e forse non è questa la sede per sollevarlo.
Ora ho capito meglio Roberta. Certo, il problema è complesso, ma non credo sia sbagliato condividere i propri pensieri qui su queste cose. C’è un rapporto stretto fra opinioni e sensazioni. L’attaccamento al piacere (e rifuggire le sgradevoli difficoltà) rende la mente pigra, superficiale o dogmatica. Ciascuno di noi (non solo i New Age) ci deve fare i conti, non trovi? Un caro saluto.