È compito degli specialisti impegnati nello studio critico e comparativo dei testi canonici delle scuole antiche e del loro contesto storico e sociale definire ambito e significato del “buddhismo delle origini” come progetto accademico e concetto euristico, e argomentare pro o contro l’ “autenticità” dei discorsi del Buddha e la possibilità di ricostruire il pensiero originale del maestro. (*)
Da un punto di vista esperienziale, che è quello che mi riguarda più direttamente, mi chiedo: che cosa facciamo quando diciamo di volerci rivolgere agli insegnamenti originari del Buddha, o ai Sutta, come guida o ispirazione per ‘praticare’, cioè per vivere e pensare oggi, mettendo da parte (o fra parentesi) interpretazioni e commenti posteriori, concrezioni culturali e trasformazioni che costituiscono il ‘buddhismo’ nelle sue molteplici scuole e tradizioni trapiantate in occidente dall’Asia? È perfino possibile una cosa del genere? È necessariamente indizio di una tendenza fondamentalista, di un rifiuto ‘protestante’ di ogni intermediazione nell’approccio alla Parola, di un desiderio di ritorno a una mitica purezza originaria? Insomma, di che si tratta, in realtà?
Può essere utile, per aiutarci a riflettere, domandarsi cosa facessero e fanno John E. Gardiner o Roger Norrington ad esempio, con le loro esecuzioni e incisioni ‘storicamente consapevoli’ di musica barocca, classica o romantica. È interessante l’obiezione avanzata a suo tempo dal musicologo Richard Taruskin, secondo cui è impossibile ricreare l’esperienza sonora di un concerto di due secoli fa (oggi dovremmo dire tre), e le esecuzioni con strumenti d’epoca rifletterebbero un’estetica o ideologia modernista. Ma la questione va ben oltre il preferire strumenti d’epoca a quelli moderni e riesumare prassi esecutive dimenticate: il desiderio stesso di tornare indietro e più vicini alla volontà e allo spirito dei compositori portò, di fatto, a una rottura con la tradizione interpretativa prevalente (leggi l’articolo di Roger Norrington http://www.theguardian.com/music/2009/mar/14/beethoven )
Facciamo il caso di Beethoven, un altro famoso, geniale e rivoluzionario B. la cui parola suscita ancora fervore religioso e dibattito. Da profano, crederesti che siccome Beethoven, diversamente dal Buddha, è vicino a noi ed è chiaramente autore delle sue opere, suonare ‘autentici’ debba essere incomparabilmente più semplice e relativamente non controverso. Naturalmente non è così. Tanto per cominciare, e lasciando da parte le questioni di filologia musicale che si applicano a tutti i compositori del passato, le partiture originali di Beethoven sono notoriamente così disordinate da essere a volte quasi illegibili; le sue annotazioni spesso insolite o criptiche; senza contare i suoi tempi veloci, tradizionalmente ritenuti ineseguibili e perfino ignorati come ‘errori’ dovuti forse alla sordità del compositore, o a un diverso standard metronomico poi caduto in disuso. E poi, un conto è stabilire il testo di una pagina musicale, un conto è eseguirla, ossia tradurre il bianco e nero della carta in una complessa e raffinata esperienza multisensoriale, intellettiva ed affettiva che comporta la comunicazione o evocazione, cosciente o implicita, di significati e valori, e che ha luogo non nel privato della nostra ‘testa’, ma nello spazio pubblico di un certo periodo e contesto sociale: e qui le strade divergono, anche radicalmente.
Il suono grezzo e il passo serrato di alcune letture più recenti, che fanno come dice l’Autore e come facevano ai Suoi tempi, sembra poco dignitoso, superficiale (e via dicendo) a chi pensa che Karajan e Beethoven siano tutt’uno. Altri direbbero: Finalmente! Ora sì! Questo è fantastico, questo è nuovo (anche se, in un certo senso, più antico). Le esecuzioni musicali ‘filologiche’ sono ormai comuni e ampiamente ben accolte; a un certo punto furono anche un po’ di moda, come sembra stiano diventando i Sutta fra gli insegnanti di meditazione. Eppure, basta scorrere i commenti ai video su You Tube o le recensioni degli acquirenti relativi ad alcune di queste esecuzioni o incisioni, per trovare più di una traccia dello sdegno, dello scherno, perfino degli insulti rivolti dalla critica e dal pubblico ai direttori d’orchestra ‘non ortodossi’ e a chi ne apprezza le interpretazioni.
Indubbiamente, è difficile non reagire quando qualcosa che conosci e ami viene sfigurato, o piegato alle opinioni e ai pregiudizi personali (sic). Per interesse, o per semplice ignoranza e cattivo gusto. Perché è questa la sensazione. Naturalmente, si può essere più educati, o così raffinati musicalmente da apprezzare la diversità e l’innovazione e limitarsi a valutazioni ‘tecniche’ non partigiane. Ma qualcosa, dentro, continua a ribellarsi: semplicemente, questo non è Beethoven. E viceversa. Quanti di noi che hanno apprezzato la vitalità e la chiarezza dell’Eroica di Gardiner si riprenderebbero il sound elefantiaco e il passo lento di diretttori più ‘tradizionali’ e orchestre ‘moderne’? E quando Gardiner ci ha mostrato come i canti della Rivoluzione Francese trovarono la via delle partiture di Beethoven, giurammo di aver sempre udito in quel ritmo scandito che si affretta: la-li-ber-té, la-li-ber-té… Certo che c’era, solo che adesso la ricerca storica ci dà il diritto di udirla.
Il fatto è: vogliamo udire certe cose. Vogliamo dimenticare quello che i nazisti hanno fatto a Beethoven, vogliamo farlo nostro, vogliamo vederlo sorridere orgoglioso ai ragazzi di El Sistema mentre Gustavo Dudamel, uno di loro assurto a fama mondiale, scatena quella massa d’energia come dono di fiducia e riscatto per gli emarginati, vogliamo accogliere nella nostra epoca ansiosa e dissonante le sue ultime opere incomprese dai contemporanei, dar loro un terreno perché ci parlino e crescano con noi.
Quindi, sì, si tratta di noi e dei nostri bisogni e valori. E non si tratta affatto del passato, ma del presente, e del nostro futuro. Certo, non si può asportare chirurgicamente, per dir così, l’India antica dal pensiero di Gotama, più di quanto si possa asportare la forma sonata dalla musica di Beethoven. Ma, d’altro canto, non si esegue Beethoven come se fosse Haydn o Mozart. E sai che comprese a fondo quella forma e andò oltre, quindi non ti stupisci (oppure sì, ma ti fa piacere) che certi pezzetti ricordino Schomberg o Bartok o perfino il jazz. E un grande musicista potrebbe farlo sembrare qualcosa di mai udito prima (ricordo lacrime di meraviglia e ammirazione ascoltando per la prima volta Missa Solemnis condotta da Norrington). I paradossi logici e le inversioni temporali sono la norma nel regno del citta (la mente-cuore), con i suoi sentimenti e significati.
Dunque, siamo nel regno del puramente soggettivo, e non resta che concludere “a ciascuno il suo Beethoven” (o il suo Buddha)? Non direi. (Ma continueremo in un prossimo post … intanto godetevi il film sull’Eroica di Beethoven nell’esecuzione dell’Orchestre Revolutionaire et Romantique condotta da sir Gardiner)
*L’espressione italiana “buddhismo antico”, che sarebbe il logico corrispettivo dell’inglese Early Buddhism, comprende generalmente sia il periodo pre-conciliare della trasmissione orale, sia le scuole buddhiste posteriori cosiddette ‘antiche’ (per intenderci, quelle che i polemisti del mahayana battezzarono come ‘piccolo veicolo’ e che concorsero alla redazione dei canoni buddhisti a noi pervenuti); inoltre, a livello divulgativo è spesso associata alle scuole theravada tutt’ora esistenti, largamente basate sulle elaborazioni filosofiche dell’abhidhamma e sull’autorità della tradizione commentariale srilankese. Per evitare confusioni, e con riferimento alla corrente ricerca sugli strati più antichi degli insegnamenti del Buddha e l’organizzazione della sua prima comunità, scelgo l’espressione buddhismo delle origini, anche se controversa (ma forse non più controversa del concetto di ‘cristianesimo delle origini’, a noi più familiare). Sull’autenticità dei Discorsi (in pali e altre lingue) come testimonianza affidabile dell’insegnamento del Buddha rimando i non specialisti a Ajahn Brahmali & Bhante Sujato, The Authenticity of the Early Buddhist Texts