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Il blog di Letizia Baglioni

Archivi tag: historically informed performances

Ritorno al futuro (2)

17 mercoledì Ago 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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Tag

Buddhismo delle origini, cetana sutta, condizionalità, dhammata, esperienza, historically informed performances, metafora, Sutta

Riprendiamo il discorso sul buddhismo delle origini, che abbiamo lasciato con Beethoven e le esecuzioni musicali filologiche o ‘storicamente consapevoli’ (vedi il post precedente Ritorno al futuro). In quel movimento abbiamo colto qualcosa che non ha a che fare con l’idealizzazione del passato o la pretesa di riprodurre un’esperienza, ma col far vivere nel presente le intenzioni e lo spirito del compositore, liberandolo da prassi esecutive e tradizioni interpretative legate ad altre epoche e altri valori. L’intento non è conservare inalterato nel tempo un feticcio musicale, ma esporsi al rischio della crisi e della trasformazione che il contatto con la grande arte comporta; attivare pensiero, emozioni ed energie che interagiscono con il nostro presente e confluiscono nella trama del futuro. Va da sé che il rigore e l’autenticità della ricerca, più il talento specifico e le altre risorse e discipline che i musicisti portano all’impresa sono determinanti per la qualità del risultato, e garantiscono che l’inevitabile soggettività non si traduca in arbitrio, dogmatismo, o mero spirito iconoclasta. Tutto ciò sembra valere anche per chi si accosta oggi agli insegnamenti del Buddha con la dovuta umiltà, ma con la consapevolezza di doversi assumere la responsabilità di come leggere ed eseguire la partitura del Dhamma nella propria vita.

Perché vale la pena di disfare (o quanto meno rilassare) alcuni dei significati e metodi ereditati da scuole e insegnanti buddhisti e rivolgersi alle fonti più antiche? E perché queste dovrebbero essere rilevanti per chi non è uno studioso, ma è interessato alla pratica per motivi personali o esistenziali? In parte, credo che alcune risposte emergano già da quanto detto fin qui, ma forse è utile provare a dire qualcosa in più su questa scelta. Riflettendo su queste domande sono emerse cinque caratteristiche degli insegnamenti più antichi che ritengo si siano perdute o oscurate nelle formulazioni successive. Sono precisamente le caratteristiche che, se ben comprese, ci permettono di trarre utili indicazioni dai sutta pali (o dai loro equivalenti in altre lingue) malgrado il divario socio-culturale e di formularle e applicarle in modi nuovi e personali oggi.

La mia premessa: il Dhamma è ‘ben esposto’ (svākkhāta). È un insegnamento che mira a promuovere e sostenere uno specifico processo evolutivo, così come emerge effettivamente nell’individuo e nel gruppo, generando nel contempo un linguaggio e modelli concettuali per descriverlo e mapparlo. Quindi, non è una religione o un’utopia filosofica. Il suo approccio è essenzialmente maieutico, più che prescrittivo. L’insegnamento (Dhamma) si accompagna a una disciplina (Vinaya), ma la disciplina, o la pratica, non determina o definisce le trasformazioni che sono oggetto del Dhamma. Quindi, non è un antico manuale di tecniche psico-spirituali. Richiede invece lo sforzo creativo di adattare la disciplina alle situazioni della vita reale.

Come uno splendido uccello, il Dhamma va accostato con cura e delicatezza (niente gesti bruschi o rozzi) per non farlo volare via o fargli male. Come un serpente velenoso, non è mite o innocuo. Come ogni organismo vivente, richiede il giusto ambiente per fiorire; pur adattandosi, tenderà a mantenere la sua coerenza interna. Mi interessa il Dhamma bio, che ha frutti irregolari dal gusto inconfondibile. Il Dhamma OGM è forse più elegante o facile da coltivare, ma altrettanto insipido.

Dai testi traspaiono il genio e le realizzazioni di Gotama, ma il Dhamma del buddhismo antico non è né opera di un singolo pensatore (come i Dialoghi di Platone), né la rivelazione di un profeta o un dio (come il Vangelo). Piuttosto, si presenta come il recupero di una sapienza disponibile agli umani (l’“antico sentiero nella foresta”)[1], si sviluppa all’interno di una matrice relazionale (rappresentata al suo primo stadio dal gruppo dei Cinque Bhikkhu più Gotama stesso) e attraversa un lungo processo di trasmissione orale e sperimentazione prima di diventare parola scritta.

I testi antichi celebrano il Tathāgata come modello e come colui che “mostra la via”, ma il Dhamma non appartiene a lui, né fonda la propria validità sull’autorità del maestro,  o perfino sul fatto che ci sia o no un Buddha [2] – un po’ come avviene per Newton e la legge di gravità. Il Dhamma appartiene a chiunque lo faccia vivere nel proprio tempo e luogo, accettando la responsabilità di tenere aperto il sentiero.

Ora i cinque punti. A questo stadio sono semplici affermazioni, un po’ secche, che non mi fermo a dimostrare e neppure a spiegare. Servono come supporto alla riflessione e all’indagine, e spero incoraggino qualcuno che indugia sulla soglia ad avventurarsi in questo mondo affascinante. Le citazioni testuali sono solo alcuni dei luoghi che avevo in mente mentre scrivevo l’articolo.

1) LA FIGURA FRATTALE – Il Dhamma presenta lo stesso disegno globale su scale diverse. Donare (dāna), rinunciare (nekkhamma), la quiete della mente raccolta (samādhi) e l’estinzione della sete (nibbāna) ruotano attorno a una medesima esperienza: lo stress dell’afferrare e aggrapparsi, il sollievo del deporre e lasciar andare. Questa è una metafora fisica, propriocettiva, la cui validità e le cui implicazioni nel regno del cuore e del comportamento vanno intuite e verificate, più che un ideale da raggiungere o uno stato a cui tendere. L’immagine del sentiero è potente, ma non dice tutto. Se presa alla lettera (e in senso lineare) può perfino essere fuorviante. Più che eseguire o ‘accumulare’ una serie di passi verso una meta desiderata che immagini (o ti hanno detto) essere al termine del percorso, si tratta di riconoscere il gusto della felicità e libertà di cui parla Gotama; si tratta di apprezzare il ‘gesto’ da cui scaturisce e procedere da lì, affrontando gli ostacoli via via che si presentano e sviluppando le risorse necessarie a superarli.

2) IL PRINCIPIO DELLA REGOLARITÀ (dhammaniyāmatā) – Il risveglio di Gotama è riproducibile, ma non si produce a volontà. Che i pulcini sguscino dalle uova ben covate è nell’ordine delle cose, non dipende dal desiderio della chioccia.[3] Dunque, l’insegnamento possiede un ordine intrinseco che rispecchia un processo naturale, impersonale, non legato a specificità culturali. “Dato A, è possibile B”; “in assenza di A, non si dà B” (per quanti sforzi tu faccia). Lo ‘sguardo del Dhamma’ coglie schemi e ricorrenze nella dimensione psichica, legami significativi ma ‘deboli’, cioè non obbligati deterministicamente né rigorosamente lineari, nella rete delle condizioni e delle forze che plasmano il flusso dell’esperienza. La prospettiva del ‘processo naturale’ è controbilanciata dalla complementare prospettiva al punto 3.

3) IL PRINCIPIO DELLA COMPETENZA (kusalatā) – Gli insegnamenti sono validi o efficaci quanto lo permettono le reali capacità e risorse delle persone. Dunque non sono universalmente ‘veri’. Tuttavia, le competenze o abilità richieste (tipicamente raggruppate in serie, come le “5 facoltà” o i “7 fattori del risveglio”) si possono sviluppare e temprare associandosi ad “amici ammirevoli” (kalyāṇamitta). Il bene e la maturità spirituale si valutano sul metro di un discernimento o saper fare affine a quello richiesto da un mestiere o un’arte. Le metafore e le similitudini tratte dal mondo del lavoro, che abbondano nei sutta, suggeriscono che, dopotutto, la mente cosciente e la volontà svolgono un ruolo (nel bene o nel male). La prospettiva della ‘competenza’ è bilanciata dalla complementare prospettiva al punto 2.

4) COMPLESSITÀ, NON UNIVOCITÀ – I Discorsi presentano non una dottrina (p.es le “quattro nobili verità”, o la “vacuità”) o un sistema di meditazione (p.es. vipassanā), ma una serie di modelli parzialmente sovrapponibili che affrontano la materia da diverse angolature, o a fasi diverse di sviluppo e coltivazione. Di qui le ambiguità, le incoerenze e le lacune che vanno risolte, per così dire, non teoricamente, ma nel contesto della propria pratica mentre si evolve. Le classificazioni degli abhidhamma, le tradizioni commentariali e le scuole buddhiste cercano di far quadrare tutto secondo chiavi interpretative e definizioni di esperienze contemplative che ambiscono a essere autorevoli, univoche e normative; ma l’effetto è paradossalmente fuorviante. Se il Dhamma è come una zattera, secondo una famosa similitudine,[4] il compito è proprio quello di costruirla assemblando il materiale sparso a disposizione, e verificare se è sufficientemente ben fatta da stare a galla e farti attraversare il fiume. Altra cosa è prendere un traghetto o farsi imprestare una zattera; se si trattasse di questo, forse il Buddha non si sarebbe dilungato a descrivere il lavoro dell’uomo che raccatta fronde e rami, li lega, eccetera.

5) IL LINGUAGGIO POLISEMICO – Gli insegnamenti dei Discorsi fanno ampio uso di concetti esperienziali.[5] In breve, i concetti esperienziali non rappresentano o designano qualcosa (unità, oggetti, realtà, entità logiche, stati, fenomeni, ecc.). Piuttosto, attingono a una riserva condivisa di conoscenza implicita suscitando certe risposte cognitive e affettive. A loro volta, tali significati soggettivamente sentiti orientano l’atteggiamento e l’azione, fra cui le azioni sottili e intime della meditazione. Termini come nibbāna, taṇhā, dukkha, sono metafore basate su osservazioni di vita quotidiana. Sono fatti per essere compresi intuitivamente da qualunque persona interessata e svolgono certe funzioni nel discorso, più che essere sezionati e impartiti come concetti filosofici, categorie psicologiche o dogmi religiosi. Un esempio per tutti è il termine sati, che non può essere ridotto a un’unica funzione mentale (come la ‘nuda attenzione’): se sei svagato o trascurato, significherà “ricorda il tuo compito, o le tue priorità”; se ti fai trascinare o sopraffare dalle tue reazioni e pensieri, implica restare “vigile e protettivo come il guardiano di una città”; se sei irrequieto e iperattivo, vorra dire “bada alle tue vacche stando seduto da un canto” (e via dicendo).[6] La molteplicità dei significati non rende vago il linguaggio o arbitraria l’interpretazione; vi è un fine ordine implicito che si rivela nella consequenzialità e appropriatezza del risultato, quando la risposta o l’azione (anche solo mentale) scaturisce dalla comprensione delle condizioni presenti.

Va da sé che interagire con persone reali che fanno tutto questo e forniscono sia il necessario  contesto etico, sia il beneficio della loro esperienza, è parte integrante del processo di decodifica. I testi antichi implicano non un maestro o una tradizione esegetica, ma un Sangha vivente ed esperto che ti aiuti a capire il Dhamma; ma soprattutto, che capisca te, mentre lo applichi nella tua vita.

[1] Saṃyutta Nikāya 12.65.

[2]Saṃyutta Nikāya 12.20.

[3] L’immagine si trova in Saṃyutta Nikāya 22.101.

[4]  Majjhima Nikāya 22.13.

[5] Per una discussione dei vari ‘tipi’ di concetti e dei termini ‘esperienza’ e ‘implicare’ nel senso in cui li uso qui, rimando a E. T. Gendlin, Experiencing and the Creation of Meaning, 1962, e opere successive. Per una rapida consultazione  http://www.focusing.org/ecmpreface.html

[6] Per queste e altre immagini di sati nei sutta, cfr Bhikkhu Anālayo, Satipatthana: The Direct Path to Realization, Windhorse : Birmingham 2003, pp. 53 segg.

Ritorno al futuro

01 mercoledì Giu 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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Tag

Beethoven, Buddhismo delle origini, historically informed performances, Sutta

È compito degli specialisti impegnati nello studio critico e comparativo dei testi canonici delle scuole antiche e del loro contesto storico e sociale definire ambito e significato del “buddhismo delle origini” come progetto accademico e concetto euristico, e argomentare pro o contro l’ “autenticità” dei discorsi del Buddha e la possibilità di ricostruire il pensiero originale del maestro. (*)

Da un punto di vista esperienziale, che è quello che mi riguarda più direttamente, mi chiedo: che cosa facciamo quando diciamo di volerci rivolgere agli insegnamenti originari del Buddha, o ai Sutta, come guida o ispirazione per ‘praticare’, cioè per vivere e pensare oggi, mettendo da parte (o fra parentesi) interpretazioni e commenti posteriori, concrezioni culturali e trasformazioni che costituiscono il ‘buddhismo’ nelle sue molteplici scuole e tradizioni trapiantate in occidente dall’Asia? È perfino possibile una cosa del genere? È necessariamente indizio di una tendenza fondamentalista, di un rifiuto ‘protestante’ di ogni intermediazione nell’approccio alla Parola, di un desiderio di ritorno a una mitica purezza originaria?  Insomma, di che si tratta, in realtà?

Può essere utile, per aiutarci a riflettere, domandarsi cosa facessero e fanno John E. Gardiner  o Roger Norrington ad esempio, con le loro esecuzioni e incisioni ‘storicamente consapevoli’ di musica barocca, classica o romantica. È interessante l’obiezione avanzata a suo tempo dal musicologo Richard Taruskin, secondo cui  è impossibile ricreare l’esperienza sonora di un concerto di due secoli fa (oggi dovremmo dire tre), e le  esecuzioni con strumenti d’epoca rifletterebbero un’estetica o ideologia modernista. Ma la questione va ben oltre il preferire strumenti d’epoca a quelli moderni e riesumare prassi esecutive dimenticate: il desiderio stesso di tornare indietro e più vicini alla volontà e allo spirito dei compositori portò, di fatto, a una rottura con la tradizione interpretativa prevalente (leggi l’articolo di Roger Norrington http://www.theguardian.com/music/2009/mar/14/beethoven )

Facciamo il caso di Beethoven, un altro famoso, geniale e rivoluzionario B. la cui parola suscita ancora fervore religioso e dibattito. Da profano, crederesti che siccome Beethoven, diversamente dal Buddha, è vicino a noi ed è chiaramente autore delle sue opere, suonare ‘autentici’ debba essere incomparabilmente più semplice e relativamente non controverso. Naturalmente non è così. Tanto per cominciare, e lasciando da parte le questioni di filologia musicale che si applicano a tutti i compositori del passato, le partiture originali di Beethoven sono notoriamente così disordinate da essere a volte quasi illegibili; le sue annotazioni spesso insolite o criptiche; senza contare i suoi tempi veloci, tradizionalmente ritenuti ineseguibili e perfino ignorati come ‘errori’ dovuti forse alla sordità del compositore, o a un diverso standard metronomico poi caduto in disuso. E poi, un conto è stabilire il testo di una pagina musicale, un  conto è eseguirla, ossia tradurre il bianco e nero della carta in una complessa e raffinata esperienza multisensoriale, intellettiva ed affettiva che comporta la comunicazione o evocazione, cosciente o implicita, di significati e valori, e che ha luogo non nel privato della nostra ‘testa’, ma nello spazio pubblico di un certo periodo e contesto sociale: e qui le strade divergono, anche radicalmente.

Il suono grezzo e il passo serrato di alcune letture più recenti, che fanno come dice l’Autore e come facevano ai Suoi tempi, sembra poco dignitoso, superficiale (e via dicendo) a chi pensa che Karajan e Beethoven siano tutt’uno. Altri direbbero: Finalmente! Ora sì! Questo è fantastico, questo è nuovo (anche se, in un certo senso, più antico). Le esecuzioni musicali ‘filologiche’ sono ormai comuni e ampiamente ben accolte; a un certo punto furono anche un po’ di moda, come sembra stiano diventando i Sutta fra gli insegnanti di meditazione. Eppure, basta scorrere i commenti ai video su You Tube o le recensioni degli acquirenti relativi ad alcune di queste esecuzioni o incisioni, per trovare più di una traccia dello sdegno, dello scherno, perfino degli insulti rivolti dalla critica e dal pubblico ai direttori d’orchestra ‘non ortodossi’ e a chi ne apprezza le interpretazioni.

Indubbiamente, è difficile non reagire quando qualcosa che conosci e ami viene sfigurato, o piegato alle opinioni e ai pregiudizi personali (sic). Per interesse, o per semplice ignoranza e cattivo gusto. Perché è questa la sensazione. Naturalmente, si può essere più educati, o così raffinati musicalmente da apprezzare la diversità e l’innovazione e limitarsi a valutazioni ‘tecniche’ non partigiane. Ma qualcosa, dentro, continua a ribellarsi: semplicemente, questo non è Beethoven. E viceversa. Quanti di noi che hanno apprezzato la vitalità e la chiarezza dell’Eroica di Gardiner si riprenderebbero il sound elefantiaco e il passo lento di diretttori più ‘tradizionali’ e orchestre ‘moderne’? E quando Gardiner ci ha mostrato come i canti della Rivoluzione Francese trovarono la via delle partiture di Beethoven, giurammo di aver sempre udito in quel ritmo scandito che si affretta: la-li-ber-té, la-li-ber-té…  Certo che c’era, solo che adesso la ricerca storica ci dà il diritto di udirla.

Il fatto è: vogliamo udire certe cose. Vogliamo dimenticare quello che i nazisti hanno fatto a Beethoven, vogliamo farlo nostro, vogliamo vederlo sorridere orgoglioso ai ragazzi di El Sistema mentre Gustavo Dudamel, uno di loro assurto a fama mondiale, scatena quella massa d’energia come dono di fiducia e riscatto per gli emarginati, vogliamo accogliere nella nostra epoca ansiosa e dissonante le sue ultime opere incomprese dai contemporanei, dar loro un terreno perché ci parlino e crescano con noi.

Quindi, sì, si tratta di noi e dei nostri bisogni e valori. E non si tratta affatto del passato, ma del presente, e del nostro futuro. Certo, non si può asportare chirurgicamente, per dir così, l’India antica dal pensiero di Gotama, più di quanto si possa asportare la forma sonata dalla musica di Beethoven. Ma, d’altro canto, non si esegue Beethoven come se fosse Haydn o Mozart.  E sai che comprese a fondo quella forma e andò oltre, quindi non ti stupisci (oppure sì, ma ti fa piacere) che certi pezzetti ricordino Schomberg o Bartok o perfino il jazz. E un grande musicista potrebbe farlo sembrare qualcosa di mai udito prima (ricordo lacrime di meraviglia e ammirazione ascoltando per la prima volta Missa Solemnis condotta da Norrington). I paradossi logici e le inversioni temporali sono la norma nel regno del citta (la mente-cuore), con i suoi sentimenti e significati.

Dunque, siamo nel regno del puramente  soggettivo, e non resta che concludere “a ciascuno il suo Beethoven” (o il suo Buddha)? Non direi. (Ma continueremo in un prossimo post … intanto godetevi il film sull’Eroica di Beethoven nell’esecuzione dell’Orchestre Revolutionaire et Romantique condotta da sir Gardiner)

*L’espressione italiana “buddhismo antico”, che sarebbe il logico corrispettivo dell’inglese Early Buddhism, comprende generalmente sia il periodo pre-conciliare della trasmissione orale, sia le scuole buddhiste posteriori cosiddette ‘antiche’ (per intenderci, quelle che i polemisti del mahayana battezzarono come ‘piccolo veicolo’ e che concorsero alla redazione dei canoni buddhisti a noi pervenuti); inoltre, a livello divulgativo è spesso associata alle scuole theravada tutt’ora esistenti, largamente basate sulle elaborazioni filosofiche dell’abhidhamma e sull’autorità della tradizione commentariale srilankese. Per evitare confusioni, e con riferimento alla corrente ricerca sugli strati più antichi degli insegnamenti del Buddha e l’organizzazione della sua prima comunità, scelgo l’espressione buddhismo delle origini, anche se controversa (ma forse non più controversa del concetto di ‘cristianesimo delle origini’, a noi più familiare). Sull’autenticità dei Discorsi (in pali e altre lingue) come testimonianza affidabile dell’insegnamento del Buddha rimando i non specialisti a Ajahn Brahmali & Bhante Sujato, The Authenticity of the Early Buddhist Texts

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