Questo post presenta una selezione di audio tratti dal Laboratorio di studio e pratica del Dhamma tenutosi a Venezia Mestre dal 9 ottobre al 27 novembre 2017: Sammā vāyāma – Il retto sforzo nell’ottuplice sentiero. Le Letture e gli Appunti con le definizioni tratte dai sutta e gli spunti di pratica sono stati conservati su questa pagina come indispensabile complemento all’ascolto. Le registrazioni integrali degli incontri del Laboratorio sono disponibili alla pagina Audio
Letture
H. Gunaratana, La felicità in otto passi, Astrolabio, Roma 2004 – cap. 6 “Lo sforzo appropriato”; “Fattori dell’illuminazione” (vedi indice analitico)
Immaginate una chioccia con otto … o dodici uova che ha ben covato, ben riscaldato, ben accudito. Anche se non desidera espressamente: “O, se i miei pulcini uscissero sani e salvi, rompendo il guscio con gli artigli e il becco!”, si dà il caso che i pulcini escano sani e salvi, rompendo il guscio con gli artigli e il becco. E perché? Ma perché la chioccia ha ben covato, ben riscaldato, ben accudito le sue otto … o dodici uova. (Saṃyutta Nikāya 22.101)
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i Discorsi del Buddha avrà incontrato una o più immagini che presentano i vari aspetti della pratica come artigianato del cuore o come messa a frutto di risorse naturali attraverso i sapienti, deliberati gesti di chi esercita un mestiere (dal macellaio, al tornitore, all’agricoltore, all’addestratore di elefanti o cavalli, all’acrobata, all’orafo). E avrà incontrato ripetuti accenni allo sforzo e alla determinazione necessari a contrastare l’inerzia della ‘materia grezza’ o le ‘abitudini selvatiche’ di un cuore non lavorato, non educato, che sembra produrre sofferenza anche contro le nostre migliori intenzioni. Se abbiamo provato a meditare, o comunque a gettare uno sguardo non superficiale ai variegati moti del cuore che pretendiamo ‘nostro’, conosciamo lo stallone imbizzarrito, il puledro ombroso, il brocco sonnolento, la cavallina che prende la mano, il purosangue sussiegoso, il “cavallo stramazzato” del montaliano male di vivere. Conosciamo la inquietante sensazione di dualismo o straniamento, quel “io e la mia (?) mente” a cui parla la metafora del rapporto con “l’animale”, sia esso il cavallo delle fonti pāli o il bue delle famose “10 vignette” dello zen.
Però, qui il praticante è l’animale. Una gallina, per la precisione, che divenuta chioccia esibisce la sua innata intelligenza facendo “bene” – il termine pāli è sammā, lo stesso usato per i fattori del nobile ottuplice sentiero – (1) il suo mestiere di gallina. Il bhikkhu dedito alla coltivazione, alla bhāvanā (2) con l’assidua, istintiva dedizione della chioccia che cova non ha bisogno di desiderare la liberazione, né di sorvegliare ansiosamente (narcisisticamente) i propri progressi: tutto avviene per naturale conseguenza, poiché vi sono le condizioni giuste. A parte il lieve umorismo della chioccia sospirosa (soprattutto se immaginiamo i monaci a cui il discorso originariamente si rivolge) mi colpisce il calore, la vividezza sensoriale dei pulcini che sgusciano sani e salvi rompendo il guscio con gli artigli e il becco. Li vediamo aggirarsi per l’aia pigolando, pronti a muoversi nel mondo oltre i confini della mente-chioccia.
Le cose nuove e vitali e tenere e buone e non ancora formate vanno dapprima riscaldate e protette, perché la gestazione non è esente da rischi. La gallina distratta o incostante, che il discorso citato evoca inizialmente, si augura un felice esito della cova ma inutilmente: tanti sono i pericoli cui vanno incontro le uova trascurate (furto, rottura, predatori) ed esse rischiano di marcire se il delicato processo di maturazione si interrompe. Addirittura, leggevo che una gallina d’allevamento in condizioni malsane può sviluppare l’abitudine di mangiare le proprie uova, distruggendo il potenziale pulcino (3).
Il tema della “naturalezza” (dhammatā) dello sviluppo spirituale in quanto processo che segue la regola generale della contingenza o condizionalità (“se c’è questo, quello viene in essere, se non c’è questo, quello non viene in essere o viene meno”) attraversa come un fil rouge i Discorsi, introducendo un’altra prospettiva, più impersonale e distesa, meno volontaristica o tecnicistica accanto alle metafore educative o artigianali, senza per altro contrapporvisi o negarla (cfr questo post).
Penso ad esempio al Cetanā Sutta dell’Aṅguttara Nikāya (trad. it. QUI ) dove si osserva che una persona dotata di genuina integrità morale non ha bisogno della volontà per sentirsi in pace con la propria coscienza e quindi tendenzialmente fiduciosa. Lo stesso concetto si ripete per una serie di fattori e stati mentali che si implicano e condizionano a vicenda, rendendo superfluo un “agente” esterno che imponga al processo una propria “agenda” o sentimenti come la speranza, l’aspettativa, il desiderio di diventare qualcosa. Dalla gioia, alla tranquillità fisica, all’agio, al raccoglimento (samādhi), al conoscere e vedere in accordo con la realtà (yathābhūtaṃ), la sequenza sfocia nella visione e conoscenza della liberazione, passando per la disillusione (nibbidā) e l’affievolirsi della brama (virāga) riguardo a ogni tipo di esperienza sensoriale e costruzione mentale.
Notate che, secondo il Cetanā Sutta (ma il concetto è ribadito in vari altri luoghi) “è naturale che la mente di una persona a proprio agio si raccolga [e] che una persona con una mente raccolta conosca e veda le cose così come sono”. Siamo lontani dallo sforzo velleitario e controllante che spesso connota l’idea ordinaria di ‘concentrazione’. La chiave sembra essere una sensibilità seminale al buono che frequentata, alimentata, custodita e incarnata nel quotidiano porta a scoprire e poi a ritrovare dentro di sé con sempre maggiore sicurezza il giusto nido per la cova.
Oltre alla similitudine della chioccia, il discorso citato contiene altre due belle immagini dei risultati organici e graduali della coltivazione del sentiero: quella dell’ascia del falegname, il cui manico si consuma impercettibilmente con l’uso fino a mostrare l’impronta delle dita, e quella della barca in secca esposta alle intemperie, il cui sartiame si corrode facilmente. In questo caso l’accento è sull’esaurirsi o consumarsi dei condizionamenti profondi – gli ‘influssi’ (āsava) o i ‘ceppi’ saṃyojana – che qualifica l’esperienza della liberazione.
Potete leggere il Vāsijaṭasutta SN 22.101 nella trad. inglese di Bhikkhu Bodhi QUI e troverete il rinvio al testo pāli (PTS SN III p. 153) che ho consultato per la mia citazione. Una traduzione italiana del Saṁyutta Nikāya: Discorsi in gruppi, a cura di V. Talamo, è edita da Astrolabio, Roma 1998.
Note (1) In riferimento all’ottuplice sentiero il termine è tradotto spesso con “retto” , “appropriato”. In altri contesti ha il senso di “completo”, “integrale” oppure “opportuno”, nel senso che arriva al momento giusto o è adatto alla circostanza.
(2) Bhāvanā (dal verbo bhāveti, causativo di bhū = far essere, generare, produrre, coltivare, sviluppare) è il termine che designa la meditazione nel senso di sviluppare un tema, applicare il pensiero a qualcosa, coltivare una certa qualità o percezione, come p. es. la benevolenza, l’impermanenza o gli aspetti non attraenti del corpo. E’ anche un modo di parlare, in generale, della “pratica”. Il sutta citato la presenta nel modo più inclusivo e analitico possibile elencando le 7 intestazioni – dai quattro modi di stabilire la presenza mentale (satipaṭṭhāna) al nobile ottuplice sentiero – sotto cui il Buddha espone gli elementi da coltivare, i fattori costitutivi del risveglio. Vedi l’elenco dei 36 bodhipakkiyāQUI
Ci sono cinque facoltà che, sostenute e coltivate, si fondono nel senza-morte, tendono al senza-morte, terminano nel senza-morte. … Sono le facoltà della fede, dell’energia, della presenza mentale, della concentrazione e del discernimento . Saṃyutta Nikāya 48.57
La disfatta di Mara – Butkara I-II sec. d.C. – MAO Torino
In questo post raccolgo alcuni materiali audio tratti dal Laboratorio Mestre 2017-18, un ciclo di incontri di studio e pratica del Dhamma dedicato alle 10 virtù o ‘perfezioni’ (pāramī): Generosità — Dāna; Moralità — Sīla; Rinuncia — Nekkhamma; Discernimento o Saggezza – Paññā; Energia —Viriya; Pazienza — Khanti; Onestà — Sacca; Determinazione o Risoluzione — Adhiṭṭhāna; Benevolenza — Mettā; Equanimità — Upekkhā.
Pur essendo un insegnamento più tardo, collegato ai racconti edificanti sulle vite precedenti di Gotama (Jātaka), il valore attribuito a queste qualità nel sostenere il cammino contemplativo e generare effetti positivi per se stessi e per gli altri è già implicito negli strati più antichi dei testi canonici buddhisti. Tradizionalmente, la forza interiore e la fiducia sviluppate nel corso di innumerevoli esistenze attraverso scelte e comportamenti che trascendono la logica egocentrica e le abitudini centrate su avidità, avversione e illusione permisero al futuro Buddha di intraprendere con successo il cammino del risveglio e vincere le forze di Māra nell’ultimo confronto alla vigilia della sua liberazione.
Le riflessioni offerte nel corso del laboratorio, rivolto prevalentemente a persone che praticano la meditazione nell’ambito dell’ottuplice sentiero, erano intese come spunti per utilizzare lo schema delle 10 pāramī come un modello integrato per orientare la mente e le intenzioni nel vivo delle attività, delle scelte e dei rapporti quotidiani, come pure nella pratica meditativa: ogni situazione e ogni avversità diventano occasione per sviluppare il potenziale positivo del cuore e indebolire le tendenze reattive non salutari.
Troverete che sottolineo la sinergia fra le pāramī e che le tratto prevalentemente a coppie, e che alla perfezione della ‘saggezza’ o discernimento riservo un posto speciale nella comprensione di ciascuna e dell’intero processo, invece che una trattazione a parte. A volte presento idee che potrebbero non coincidere con l’insegnamento del buddhismo theravada (perché rispecchiano la prospettiva dei sutta o discorsi antichi, o perché nascono da miei interessi od osservazioni personali). Spero che le mie imprecisioni confusioni o divagazioni vi incoraggino a cercare chiarimento e certezza nella vostra diretta esperienza.
Lo scopo di questo post è incoraggiare la riflessione e la pratica personale delle virtù come fonte di fiducia interiore, base indispensabile per lo sviluppo della meditazione e della saggezza negli insegnamenti buddhisti. Dopo l’ascolto, proponetevi di applicare creativamente e per un certo periodo di tempo una o più di queste potenti intenzioni/motivazioni (quel poco o tanto che capite, che vi sembra sensato o possibile) nelle vostre giornate e in circostanze concrete, dandovi il tempo di osservare e apprendere come e dove migliora la vostra vita e quella degli altri intorno a voi. Qui sotto trovate anche il pdf e l’audio del canto tradizionale, per chi volesse cimentarsi rallegrando e concentrando la mente mentre memorizza l’elenco delle dieci pāramī.
Per chi è relativamente nuovo agli insegnamenti del buddhismo antico e cerca un punto di partenza, un utile complemento a questo post è il seminario online Le fonti della gioia (vedi la Scheda del seminario). Le riflessioni presentate sono organizzate secondo la logica dell'”esposizione graduale” del Buddha, e mettono in particolare risalto almeno tre delle qualità menzionate nell’elenco delle pāramī: generosità, moralità, rinuncia. Questo è lo stile di insegnamento che il Buddha applicava talvolta allo scopo di preparare gli ascoltatori al ‘salto’ o spostamento di prospettiva delle quattro nobili verità (la sofferenza, la sua origine, la cessazione e il sentiero, il quale include la corretta pratica della meditazione in termini di presenza mentale, quiete e investigazione).
Traduco di seguito il Samaṇamaṇḍikāputta Sutta, Majjhima Nikāya 78. In questo discorso il Buddha chiarisce a un suo discepolo, il carpentiere Pancakaṅga, in cosa consiste la realizzazione spirituale secondo il suo insegnamento, mettendola a confronto con un percorso di semplice innocenza morale proposto da un asceta di un’altra scuola filosofica. Il punto centrale è che un discepolo del Buddha comprende e realizza direttamente cosa sono il bene e il male come stati della mente e della volontà, da cosa sorgono, come cessano e come si pratica per la loro cessazione. Quando il processo è visto in termini di cause e condizioni che possono cambiare e cessare, piuttosto che in termini di “io e mio”, l’identità costruita sugli schemi e le abitudini sane o malsane e sui loro effetti viene a cessare, e con essa ogni conflitto e ogni motivazione o desiderio di futura esistenza o di ‘nascere’ come questo o quello. Ecco perché, nel brano seguente, si parla di ‘cessazione’ anche delle intenzioni moralmente appropriate, nel momento in cui non vi è più bisogno di sostenerle con la volontà. Nelle note aggiungo rinvii ad altri testi o materiali pubblicati su questo blog che possono aiutare a chiarire o mettere in contesto i fattori del sentiero evidenziati in questo sutta. Il riferimento a un ‘monaco’ (bhikkhu) è da intendersi qui non come specifico, ma come indicativo di un/una praticante in addestramento.
Così ho udito. Una volta il Buddha risiedeva presso Sāvatthī nel Boschetto di Jeta, il monastero di Anāthapiṇḍika. A quel tempo, l’asceta itinerante Uggāhamāna figlio di Samaṇamuṇḍikā stava con circa trecento seguaci nel parco di Mallikā, il padiglione per i dibattiti circondato da alberi di ebano. Ordunque, il carpentiere Pañcakaṅga partì da Sāvatthī in tarda mattinata per incontrare il Buddha. Ma poi pensò: “Non è il momento di visitare il Buddha, perché è in ritiro. E non è il momento di visitare i suoi stimati monaci, perché anche loro sono in ritiro. E se andassi al parco di Mallikā a trovare l’asceta Uggāhamāna?” E così fece.
In quel momento Uggāhamāna sedeva con un folto gruppo di asceti che discutevano ad alta voce, facendo un gran chiasso. E parlavano di argomenti triviali come: re, banditi e ministri, eserciti, pericoli e battaglie, cibi, bevande, abiti, letti, fiori, ghirlande e profumi; parlavano di parenti, veicoli, villaggi, città e province, donne ed eroi, pettegolezzi in piazza e alla fontana; parlavano di defunti, del più e del meno, di terra e di mare, di esistenza e non esistenza. [1] Uggāhamāna vide da lontano il carpentiere Pancakaṅga e invitò tutti a fare silenzio, dicendo: “Zitti, non fate chiasso; quello che arriva è un discepolo del monaco Gotama, il carpentiere Pancakaṅga. E’ uno di quei laici vestiti di bianco, uno di quei seguaci del monaco Gotama che risiedono nella città di Sāvatthī. Questi signori amano la quiete, si addestrano alla quiete, lodano la quiete. Perciò, se vede che il nostro gruppo non fa chiasso potrebbe decidere di avvicinarsi”. A quelle parole, gli asceti fecero silenzio.
Pancakaṅga il carpentiere si avvicinò a Uggāhamāna e scambiò con lui i saluti. Terminati i cordiali convenevoli, si sedette da un canto. Poi Uggāhamāna si rivolse a Pancakaṅga il carpentiere, che era seduto da un canto, dicendo: “Io, carpentiere, sostengo che una persona dotata di quattro qualità è un asceta invincibile, esperto nel bene [kusalaṃ], eccellente nel bene, che ha conseguito la massima realizzazione. E quali quattro? Ecco, carpentiere: non compie azioni nocive col corpo, non dice parole nocive, non ha intenzioni nocive, non si mantiene con mezzi nocivi. Io sostengo che una persona dotata di queste quattro qualità è un asceta invincibile, esperto nel bene, eccellente nel bene, che ha conseguito la massima realizzazione”. Ma il falegname Pancakaṅga non approvò le parole di Uggāhamāna, né le disapprovò. Senza approvare o disapprovare, si alzò e se ne andò, pensando: “Me le farò spiegare dal Maestro”.
Così Pancakaṅga si recò dal Maestro. Gli si accostò, lo salutò rispettosamente e si sedette da un canto. Dopodiché, ripeté al Maestro la conversazione avuta con Uggāhamāna. Il Maestro rispose a Pancakaṅga: “Se fosse così, carpentiere, un bambinetto in fasce sarebbe un asceta invincibile esperto nel bene, eccellente nel bene, che ha conseguito la massima realizzazione. Perché un bambinetto in fasce non pensa neppure in termini di ‘corpo’: come potrebbe compiere azioni nocive col corpo, tranne tirare qualche calcetto? Un bambinetto in fasce non pensa neppure in termini di ‘parola’: come potrebbe dire parole nocive, tranne piangere un po’? Un bambinetto in fasce non pensa neppure in termini di ‘intenzione’: come potrebbe avere intenzioni nocive, tranne agitarsi un po’? Un bambinetto in fasce, carpentiere, non pensa neppure in termini di ‘mezzi di sussistenza’: come si manterrebbe con mezzi nocivi, tranne succhiare il latte? Dunque, stando alle parole di Uggāhamāna, un bambinetto in fasce è esperto nel bene, eccellente nel bene, un asceta invincibile che ha conseguito la massima realizzazione. Ma io, carpentiere, una persona che ha quattro qualità – cioè che non compie azioni nocive col corpo, non dice parole nocive, non ha intenzioni nocive, non si mantiene con mezzi nocivi – non la considero esperta nel bene o eccellente nel bene, un asceta invincibile che ha conseguito la massima realizzazione; dico che è sullo stesso piano di un bambinetto in fasce.
Io, carpentiere, dico che una persona dotata di dieci qualità è esperto nel bene, eccellente nel bene, un asceta invincibile che ha conseguito la massima realizzazione. Dico che vi sono cose che vanno comprese. E cioè: “Questi sono comportamenti non salutari”; “I comportamenti non salutari hanno origine qui”; “Qui cessano completamente i comportamenti non salutari”; “Chi pratica così, pratica per la cessazione dei comportamenti non salutari”. E inoltre: “Questi sono comportamenti salutari”; “I comportamenti salutari hanno origine qui”; “Qui cessano completamente i comportamenti salutari”; “Chi pratica così, pratica per la cessazione dei comportamenti salutari”. E inoltre: “Queste sono intenzioni (sankappa) non salutari”; “Le intenzioni non salutari hanno origine qui”; “Qui cessano completamente le intenzioni non salutari”; “Chi pratica così pratica per la cessazione delle intenzioni non salutari”. E inoltre: “Queste sono intenzioni salutari”; “Le intenzioni salutari hanno origine qui”; “Qui cessano completamente le intenzioni salutari”; “Chi pratica così pratica per la cessazione delle intenzioni salutari”.
E cosa sono, carpentiere, i comportamenti non salutari (akusalā sīlā)? Sono le azioni non salutari compiute con il corpo e la parola, e il mantenersi con mezzi scorretti. E dove hanno origine i comportamenti non salutari? Ho parlato anche della loro origine: e la risposta è che hanno origine nella mente. Quale mente? Perché la mente è multiforme, variegata e sempre diversa. La mente con avidità, odio e illusione (sarāgaṃ sadosaṃ samohaṃ): qui hanno origine i comportamenti non salutari. E dove cessano completamente i comportamenti non salutari? Anche della loro cessazione ho parlato. E cioè: un monaco abbandona un comportamento nocivo con il corpo, la parola e la mente, e adotta un buon comportamento con il corpo, la parola e la mente; non si mantiene con mezzi scorretti e adotta mezzi di sussistenza corretti. È qui che i comportamenti non salutari cessano completamente. [2]
E in che modo pratica chi pratica per la cessazione dei comportamenti non salutari? Ecco: suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di prevenire il sorgere di qualità dannose e non salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di abbandonare le qualità dannose e non salutari che siano sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di far sorgere qualità salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di mantenere, chiarificare, far crescere, arricchire, maturare e perfezionare le qualità salutari già sorte. Praticando così, pratica per la cessazione dei comportamenti non salutari. [3]
E cosa sono, carpentiere, i comportamenti salutari (kusalā sīlā)? Sono le azioni salutari compiute con il corpo e la parola e mantenersi con mezzi corretti. E dove hanno origine i comportamenti salutari? Ho parlato anche della loro origine: e bisogna rispondere che hanno origine nella mente. Quale mente? Perché la mente è multiforme, variegata e sempre diversa. La mente che è priva di avidità, odio e illusione (vītarāgaṃ vītadosaṃ vītamohaṃ): qui hanno origine i comportamenti salutari. E dove cessano completamente i comportamenti salutari? Anche della loro cessazione ho parlato. E cioè: un monaco è virtuoso, ma non si identifica con la virtù [no ca sīlamayo] e conosce per esperienza diretta la liberazione del cuore e la liberazione data dal discernimento dove i comportamenti salutari cessano senza lasciare traccia.
E in che modo pratica chi pratica per la cessazione dei comportamenti salutari? Ecco: suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di prevenire il sorgere di qualità dannose e non salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di abbandonare le qualità dannose e non salutari che siano sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di far sorgere qualità salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di mantenere, chiarificare, far crescere, arricchire, maturare e perfezionare le qualità salutari già sorte. Praticando così, pratica per la cessazione dei comportamenti salutari.
“E quali sono le intenzioni non salutari? Le intenzioni sensuali, ostili o aggressive. E dove hanno origine le intenzioni non salutari? Ho parlato anche della loro origine. E alla domanda si deve rispondere che sorgono dalla percezione. Ma quale percezione? Perché la percezione è molteplice, varia, diversificata. Le intenzioni non salutari sorgono da percezioni connesse al piacere dei sensi, alla resistenza [o avversione] e all’aggressività. E dove cessano completamente le intenzioni non salutari? Ho parlato anche della loro cessazione. E’ il caso in cui un monaco, separato dagli stimoli sensoriali e separato dagli stati mentali non salutari, entra e permane nel primo livello di quiete meditativa [jhāna] che si associa all’applicazione iniziale e sostenuta: gioia e piacere nati dalla separazione. È qui che le intenzioni non salutari cessano completamente. E in che modo pratica uno che pratica per la cessazione delle intenzioni non salutari? Ecco: suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di prevenire il sorgere di qualità dannose e non salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di abbandonare le qualità dannose e non salutari che siano sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di far sorgere qualità salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di mantenere, chiarificare, far crescere, arricchire, maturare e perfezionare le qualità salutari già sorte. Praticando così, pratica per la cessazione delle intenzioni non salutari.
E quali sono le intenzioni salutari? La rinuncia, la benevolenza e la compassione. [4] E dove hanno origine le intenzioni salutari? Ho parlato anche della loro origine: e la risposta è che sorgono dalla percezione. Ma quale percezione? Perché la percezione è molteplice, varia, diversificata. Le intenzioni salutari emergono da percezioni connesse all’appagamento, alla non-avversione, alla non-violenza. E dove cessano completamente le intenzioni salutari? Ho parlato anche della loro cessazione. E’ il caso in cui un monaco, rilassando l’applicazione iniziale e sostenuta, entra e permane nel secondo livello di quiete meditativa che è privo di applicazione iniziale e sostenuta: una mente concentrata e internamente fiduciosa, gioia e piacere nati dall’unificazione. È qui che le intenzioni salutari cessano completamente. E in che modo pratica uno che pratica per la cessazione delle intenzioni salutari? Ecco: suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di prevenire il sorgere di qualità dannose e non salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di abbandonare le qualità dannose e non salutari che siano sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di far sorgere qualità salutari non ancora sorte. Suscita il desiderio, si applica, attiva l’energia, esercita la volontà e si impegna al fine di mantenere, chiarificare, far crescere, arricchire, maturare e perfezionare qualità salutari già sorte. Praticando così, pratica per la cessazione delle intenzioni salutari. [5]
[Segue l’esposizione dei 10 fattori del sentiero di cui è dotato un asekhā cioè qualcuno che ha completato l’addestramento – un arahant: sono gli 8 fattori standard del sentiero più la retta conoscenza e la retta liberazione. Per il brano completo cfr trad. Sujato https://suttacentral.net/mn78/en/sujato ].
Questo disse il Maestro. Soddisfatto, Pancakaṅga il carpentiere apprezzò le parole del Maestro.
NOTE
[1] Sulla ‘parola futile’ e le altre forme di parola retta e non retta vedi QUI Il documento contiene anche una tipica presentazione dei cinque precetti etici per i laici buddhisti.
[2] Per una esposizione delle 10 condotte morali e immorali vedi Majjhima Nikāya 41 Sāleyyaka Sutta trad. it. Una tipica definizione dei modi scorretti di guadagnarsi da vivere per un praticante laico (indicativa, non certamente esaustiva) include cinque forme di commercio: armi, esseri umani, animali da macello, liquori, veleni (p. es AN 5.177; vedi QUI anche sui mezzi di sussistenza scorretti per un monaco mendicante. Il concetto di “mezzi di sussistenza appropriati” ha ispirato direttamente o indirettamente il dibattito, gli studi e molte interessanti iniziative intorno all’etica del lavoro e dei modi di produzione nel mondo contemporaneo, e sull’importanza di questo fattore per il benessere dell’individuo, della società e dell’ambiente (a cominciare dall’ormai classico saggio di Schumacher Piccolo è bello ; vedi anche il sito https://www.rightlivelihoodaward.org/)
[3] Sul retto sforzo (sammā vayāma ) come fattore del sentiero, qui esposto secondo la classica formula quadruplice, vedi Laboratorio Mestre 2017-18 e relativi file AUDIO
[4] Sulle rette motivazioni o intenzioni (sammā saṅkappā) come fattore del sentiero e sui diversi modi di rendere il termine saṅkappā e le tre qualità mentali cui si fa riferimento vedi testi e documenti sulla pagina Ritiro-di-febbraio-a-Tossignano 2020 e relativi file AUDIO. Ascolta anche:
HO UDITO CHE in una certa occasione il Beato risiedeva a Sāvatthī nel boschetto di Jeta, il parco di Anāthapiṇḍika. Lì si rivolse ai bhikkhu: “Bhikkhu!” “Sì, signore”, replicarono quelli.
DISSE IL BEATO: “Bhikkhu, prima del risveglio, quando ero ancora un bodhisatta non risvegliato, ebbi un’idea: “E se dividessi i miei pensieri in due categorie?”. Perciò, misi da una parte i pensieri sensuali, i pensieri ostili e i pensieri crudeli, e dall’altra i pensieri di temperanza, i pensieri non ostili, i pensieri non crudeli. (1)
MENTRE RESTAVO COSI’, vigile, ardente e risoluto, (2) nasceva in me un pensiero associato alla sensualità. Sapevo questo: “È sorto in me un pensiero sensuale. Questo porta alla mia afflizione, all’afflizione di altri, all’afflizione di entrambi; blocca il discernimento, è fonte di problemi e non porta al nibbāna. Quando consideravo che porta alla mia afflizione … all’afflizione di altri … all’afflizione di entrambi, quel pensiero svaniva. Quando consideravo che blocca il discernimento, è fonte di problemi e non porta al nibbāna, quel pensiero svaniva. Ogniqualvolta si presentavano pensieri sensuali, semplicemente li abbandonavo, li disperdevo, me ne liberavo.
Mentre restavo così, vigile, ardente e risoluto, nasceva in me un pensiero associato all’ostilità. Sapevo questo: “È sorto in me un pensiero ostile. Questo porta alla mia afflizione, all’afflizione di altri, all’afflizione di entrambi; blocca il discernimento, è fonte di problemi e non porta al nibbāna. Quando consideravo che porta alla mia afflizione … all’afflizione di altri … all’afflizione di entrambi, quel pensiero svaniva. Quando consideravo che blocca il discernimento, è fonte di problemi e non porta al nibbāna, quel pensiero svaniva. Ogniqualvolta si presentavano pensieri ostili semplicemente li abbandonavo, li disperdevo, me ne liberavo.
Mentre restavo così, vigile, ardente e risoluto, nasceva in me un pensiero associato alla crudeltà. Sapevo questo: “È sorto in me un pensiero crudele. Questo porta alla mia afflizione, all’afflizione di altri, all’afflizione di entrambi; blocca il discernimento, è fonte di problemi e non porta al nibbāna. Quando consideravo che porta alla mia afflizione … all’afflizione di altri … all’afflizione di entrambi, quel pensiero svaniva. Quando consideravo che blocca il discernimento, è fonte di problemi e non porta al nibbāna, quel pensiero svaniva. Ogniqualvolta si presentavano pensieri crudeli semplicemente li abbandonavo, li disperdevo, me ne liberavo.
BHIKKHU, SE UN BHIKKHU PENSA e ripensa spesso a certe cose, il suo cuore prende quella piega. Nella misura in cui intrattiene spesso pensieri sensuali … pensieri ostili … pensieri crudeli, ha abbandonato il pensiero della temperanza … dell’amicizia … della compassione, per coltivare il pensiero sensuale, ostile o crudele, e il suo cuore inclina a pensieri sensuali, ostili o crudeli.
NELL’ULTIMO MESE DEL MONSONE, in autunno, quando matura il raccolto, un bovaro sorveglia da presso le sue vacche pungolandole e picchiettandole ai fianchi col bastone per tenerle fuori dai campi coltivati. Perché? Perché sa che potrebbe essere frustato, imprigionato, multato o rimproverato. Allo stesso modo, nelle qualità malsane io presagivo svantaggio, degrado e macchia, e in quelle salutari presagivo i vantaggi legati alla temperanza e alla purezza.
MENTRE RESTAVO COSI’, vigile, ardente e risoluto, nasceva in me un pensiero di temperanza … di amicizia … di compassione. Sapevo questo: un pensiero di temperanza … di amicizia … di compassione è sorto in me. Questo non porta alla mia afflizione, all’afflizione di altri, all’afflizione di entrambi. Nutre il discernimento, non è fonte di problemi e tende al nibbāna. Seppure intrattenessi questo genere di pensieri per tutta la notte, per un giorno intero, per un giorno e una notte, non ci sarebbe nulla da temere. Senonché, pensare e riflettere a lungo stanca il corpo. Un corpo stanco disturba il cuore (citta). E un cuore disturbato non si concentra. Perciò lo rendevo internamente stabile, quieto, unito e concentrato. Perche? Per non disturbare il cuore.
NELL’ULTIMO MESE DELLA stagione calda, quando il raccolto è già stato portato al villaggio, un bovaro bada alle vacche seduto all’ombra di un albero o all’aperto e gli basta essere consapevole delle sue vacche. Allo stesso modo, ero semplicemente consapevole di quelle qualità.
SORSE IN ME un’energia risoluta, la consapevolezza suscitata era continua, il corpo tranquillo e rilassato, la mente raccolta e unificata. Distaccato dalla sensualità, distaccato da qualità mentali non salutari, entrai e rimasi nel primo jhāna: gioia e piacere nati dal distacco, associati a un’applicazione iniziale e sostenuta. Venendo meno l’applicazione iniziale e sostenuta, entrai e rimasi nel secondo jhāna: gioia e piacere nati dal raccoglimento (samādhija), un cuore unito senza applicazione iniziale e sostenuta, fiducia interiore. Venendo meno la gioia restai equanime, consapevole e chiaramente cosciente (sato sampajāno) fisicamente sensibile al piacere; entrai e rimasi nel terzo jhāna di cui i nobili dicono: “Ha una piacevole dimora chi è equanime e consapevole”. Abbandonati piacere e dolore, ed essendo già venuti meno soddisfazione e scontento, entrai e rimasi nel quarto jhāna: pura consapevolezza ed equanimità, né piacevole, né spiacevole.
QUANDO LA MENTE FU CONCENTRATA, purificata, lucida, senza pecche, non adulterata, duttile, malleabile, stabile e imperturbabile, la rivolsi alla conoscenza del ricordo delle vite precedenti. Ricordai le mie molte vite passate, una nascita … cento … centomila … molti eoni di contrazione ed espansione cosmica: lì avevo quel nome, quella famiglia, quell’aspetto. Così era il mio cibo, la mia esperienza del piacere e del dolore, così ebbe termine la mia vita. Abbandonata quella condizione sono riapparso qui. …. Così ricordai le mie molte vite passate nel carattere e nei dettagli. Questa fu la prima conoscenza, raggiunta nella prima parte della notte. L’ignoranza fu vinta, sorse la conoscenza; la tenebra fu vinta, sorse la luce – come avviene in chi è vigile, ardente e risoluto.
Quando la mente fu concentrata, purificata, lucida, senza pecche, non adulterata, duttile, malleabile, stabile e imperturbabile, la rivolsi alla conoscenza della scomparsa e ricomparsa degli esseri. Vidi, con l’occhio spirituale puro e superiore all’umano, gli esseri che scompaiono e riappaiono, comprendendo come sono inferiori e superiori, belli e brutti, fortunati e sfortunati in accordo con le loro azioni (kamma) … Questa fu la seconda conoscenza, raggiunta nella seconda parte della notte. L’ignoranza fu vinta, sorse la conoscenza; la tenebra fu vinta, sorse la luce; come succede in chi è vigile, ardente e risoluto.
Quando la mente fu concentrata, purificata, lucida, senza pecche, non adulterata, duttile, malleabile, stabile e imperturbabile, la rivolsi alla conoscenza dell’esaurirsi delle fermentazioni mentali (āsavā). Compresi, in accordo con i fatti, “Questo è stress (dukkha)… questo il sorgere dello stress … questa la fine dello stress … questa la via che porta alla fine dello stress. Queste sono le fermentazioni … Questo è il sorgere delle fermentazioni … Questa è la fine delle fermentazioni … Questa è la via che porta alla fine delle fermentazioni. Conoscendo questo, vedendo questo, il mio cuore fu libero dalla fermentazione della sensualità, libero dalla fermentazione del divenire, libero dalla fermentazione dell’ignoranza. Una volta libero seppi: “Libero”. Capii: la nascita è finita, la condotta pura ha dato frutto, quel che andava fatto è stato fatto. Non resta nulla per questo mondo. Questa fu la terza conoscenza, raggiunta nella terza parte della notte. L’ignoranza fu vinta, sorse la conoscenza; la tenebra fu vinta, sorse la luce: come accade in chi è vigile, ardente e risoluto.
IMMAGINATE CHE IN UNA ZONA boscosa vi sia una vasta conca paludosa presso cui vive un grande branco di cervi. Arriva un uomo che non vuole il loro bene, che non fa i loro interessi, che non li vuole liberi. Chiude il sentiero sicuro e agevole che li fa contenti e apre un falso sentiero, attirandoli con un’esca maschio e approntando una femmina posticcia. Così che il branco di cervi vada sicuramente incontro alla rovina, alla morte e alla decimazione. E immaginate che arrivi a quel branco di cervi un altro uomo che vuole il loro bene, che fa i loro interessi, che li vuole liberi. Riapre il sentiero sicuro e agevole che li fa contenti, chiude il falso sentiero, porta via l’esca maschio, distrugge la femmina posticcia; così che, infine, il branco di cervi possa vivere, crescere e prosperare.
Vi ho dato una similitudine per comunicare qualcosa. Il senso è questo: la vasta conca paludosa è la sensualità. Il grande branco di cervi rappresenta gli esseri. L’uomo che non vuole il loro bene è Māra, il Maligno. Il falso sentiero rappresenta l’ottuplice sentiero sbagliato: prospettiva, propositi, linguaggio, interazioni, mezzi di sussistenza, sforzo, consapevolezza e concentrazione sbagliati. L’esca maschio è l’attaccamento al piacere. La femmina posticcia è l’ignoranza. L’uomo che vuole il loro bene rappresenta il Tathagata, il sentiero sicuro e agevole che li fa contenti è il nobile ottuplice sentiero: prospettiva, propositi, linguaggio, interazioni, mezzi di sussistenza, sforzo, consapevolezza e concentrazione adeguati.
PERCIO’, BHIKKHU, ho aperto il sentiero sicuro e agevole, chiuso il falso sentiero, portato via l’esca e distrutto la femmina posticcia. Tutto quello che un insegnante dovrebbe fare per il bene dei suoi allievi, per premura nei loro confronti, l’ho fatto. Ci sono i piedi degli alberi, ci sono alloggi vuoti. Meditate, bhikkhu, non distraetevi. Che non abbiate a rimpiangerlo poi. Questa è la mia istruzione per voi.
ECCO COSA DISSE il Beato. Soddisfatti, i monaci gioirono delle parole del Beato.
NOTE
1) kāmavitakko, byāpādavitakko, vihiṃsāvitakko; i loro opposti (nekkhammavitakko, abyāpādavitakko, avihiṃsāvitakko) sono espressi al negativo, come assenza o libertà dalle corrispondenti qualità non salutari, ma qui li rendo alternativamente “al positivo” come temperanza, amicizia e compassione per implicare che si tratta di virtù attive, non della semplice assenza di qualcosa. Nello schema del nobile ottuplice sentiero queste tre costituiscono il secondo fattore, sammāsankappa, “retta intenzione o retti propositi”. Il termine nekkhamma è generalmente reso con ‘rinuncia’, e ha un’assonanza (ma non una corrispondenza etimologica) con il suo contrario kāma (la sensualità). Qui preferisco renderlo con ‘temperanza’, che rende meglio la qualità di non assuefazione alla gratificazione dei sensi, e non contiene le risonanze semantiche negative del termine rinuncia.
2) Qualità che evocano la pratica sostenuta della consapevolezza o satipaṭṭhāna. La prima qualità (qui resa con ‘vigilanza’) è letteralmente l’essere dotati di appamāda (variamente reso con ‘diligenza’, ‘attenzione’, ‘cura’) e ha implicazioni ampie e importanti. Nel famoso verso del Dhammapāda, 21 il Buddha la addita come “la via al senza morte”. E’ l’opposto della ‘ubriachezza’ o ‘sventatezza’ (pamāda) con cui attraversiamo la vita nella distrazione, inconsapevoli della sua natura incostante, inappagante, impersonale, condizionata e della necessità di coltivare il bene e lasciare andare ciò che nuoce.
Potete leggere il sutta nella traduzione inglese di Thanissaro Bhikkhu su http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/mn/mn.019.than.html alla stessa pagina il link alla versione pāli PTS: M i 114 usata per la versione italiana. Ho abbreviato il passo standard sulle tre conoscenze e omesso qualche ripetizione nel passo sulla contemplazione dei pensieri (segnalati con …). Una traduzione classica è in:The Middle Length Discourses of the Buddha: A New Translation of the Majjhima Nikaya, trans. by Bhikkhu Ñanamoli and Bhikkhu Bodhi (Boston: Wisdom Publications, 1995).