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Il blog di Letizia Baglioni

Archivi Mensili: novembre 2015

Comprendere dukkha

25 mercoledì Nov 2015

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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dukkha, khandha

Come  sa chi studia e pratica il Dhamma, il termine pali dukkha è tanto ricorrente negli insegnamenti del Buddha quanto sfuggente, difficile da tradurre, fonte di fraintendimenti e di dubbi. Ma alla fine, quel che conta non è tanto trovare la perfetta definizione, quanto usare questo concetto come un dito che punta alla luna della nostra condizione, personale e collettiva. Nel modo in cui ricorre nei Discorsi antichi appare come un segno stenografico che va esplicitato e tradotto dall’ascoltatore alla luce della propria esperienza di vita e della comprensione dell’intero insegnamento del Buddha.

Traduco qui di seguito alcuni brani dal capitolo 5 di The Dawn of the Dhamma di Ajahn Sucitto (1). Vedrete come nel fornire la sua traduzione della ‘prima nobile verità’ la libera resa del termine allevia la rigidità quasi geroglifica della formula tradizionale rilasciando un senso a cui tutti possiamo rapportarci con immediatezza.  

Dukkha non è una realtà fisica oggettiva come la malattia o la carestia. A volte possedere poco va bene o è perfino rasserenante; altre volte, ci angosciamo per una macchia sulla tovaglia. Entrare in contatto con quella sensazione è una via d’accesso alla spiritualità perché ci offre un indizio di dove e come le esperienze della vita ci toccano realmente. Possiamo credere di essere guidati da principi razionali, ma scegliamo di essere razionali solo quando un atteggiamento calmo e obbiettivo ci conviene. Le nostre motivazioni, i parametri in base a cui qualcosa ci piace, ci ispira o ci sembra utile (come pure il contrario) risiedono in un’altra dimensione della psiche. Entrare in contatto con tale dimensione è essenziale, se vogliamo vivere in modo meno confuso.

Mettendo l’accento su dukkha il Buddha mette in risalto un fatto che spesso non notiamo o di cui abbiamo un assaggio solo in relazione a situazioni particolari. Non sta dicendo che la vita è dolorosa: la maggior parte delle cose presenta una miscela di piacere, dolore e neutralità. Tuttavia, la qualità di fondo è una certa irrequieta ansietà (un sentimento di mancanza: “non è sufficiente”, “c’è qualcosa che non va”). Nella felicità, il retrogusto è il desiderio di averne di più, l’attaccamento o il tentativo di prolungare lo stimolo in quanto, di per sé, è destinata a cambiare. E quando la fonte della felicità svanisce, cominciamo a provare noia o insoddisfazione e a cercare qualcos’altro. Se non troviamo nulla, ci sentiamo peggio. […]

Un sentimento di mancanza permea le nostre vite. A volte proviamo la sensazione che ci manchi qualcosa, o un’insoddisfazione che può andare da un lieve senso di stanchezza all’estrema disperazione. Può essere innescata da sensazioni fisiche o da impressioni mentali riguardanti noi stessi o altri. E’ caratterizzata dal sentire che non c’è abbastanza. Se stiamo bene fisicamente e mentalmente possiamo sentirci delusi dal fatto che la vita non ci offre abbastanza, che non ne stiamo facendo buon uso o che non facciamo abbastanza. Oppure dalla mancanza di tempo, di spazio e di libertà. Possiamo provare ansia per le condizioni del pianeta e dell’ambiente: la nostra percezione del presente e del futuro non è rassicurante e libera da problemi. Anche avere ‘troppo’ significa non avere abbastanza spazio, futuro e tranquillità. La lista è interminabile. Provate a riflettere sulle vostre attività e i vostri progetti: notate che c’è uno sforzo costante di cambiare o fronteggiare situazioni sgradevoli o di promuovere il benessere. E’ una condizione universale.

Per molti di noi, la spinta a intraprendere un cammino spirituale nasce dal prendere atto di come questo sia lo stato d’animo prevalente in tutto quel che facciamo e dovunque andiamo, inclusa la pratica spirituale! L’ho constatato di persona: vivere in un luogo tranquillo come monaco contemplativo, senza dover pensare a nulla, non mi impediva di irritarmi perché una rana gracidava: “Ma che avranno da gracidare ‘ste rane, perché non stanno zitte e non smettono di disturbarmi!”. Non è una risposta intenzionale e deliberata, è una reazione istintiva. Crediamo di essere fatti così, e ogni possibilità di cambiamento, quand’anche desiderassimo cambiare, appare remota. Abitudini e istinti definiscono la nostra identità, ed è qui che dukkha ci rode dentro più profondamente.

Bhikkhu, c’è questa nobile verità sull’insoddisfazione. Nascere è problematico, invecchiare è duro e morire è difficile da accettare. Tristezza, rimpianto, dolore fisico, angoscia e disperazione sono egualmente dolorosi. Essere uniti a ciò che non piace è sgradevole; essere separati da ciò che piace è sgradevole; non ottenere ciò che si desidera è sgradevole. In breve, i cinque aggregati a cui ci si afferra sono insoddisfacenti.

‘Afferrare’ è un’efficace metafora di quello che altrove si definisce ‘attaccamento’. Significa trattare qualcosa come permanente o assoluto mentre in realtà non lo è. Quando sei attaccato alle sigarette, per esempio, le consideri assolutamente necessarie alla tua vita. Devi sempre averne un pacchetto a portata di mano. In realtà, però, le sigarette non sono necessarie. Quindi, in cosa consiste  l’attaccamento agli aggregati [o khandha: forma, sensazioni, significati, intenzioni, coscienza] che li rende insoddisfacenti?

La nostra sensazione di esistere come persone si basa interamente sull’afferrare i cinque aggregati come un nucleo personale, come il nostro sé. Malgrado l’introvabilità di questo ‘nucleo personale’, che in realtà è solo uno stato d’animo generato dall’attaccamento agli khandha, gli attribuiamo la paternità di pensieri e sentimenti, la proprietà e la responsabilità del corpo, la direzione e il controllo dei sensi. Una volta creata un’identità attorno agli khandha, ci aspettiamo che ci gratifichino. C’è il presupposto istintivo che troveremo appagamento nel nostro corpo o in quello di qualcun altro; o in sensazioni piacevoli, stimolanti o calmanti; o in opinioni e idee brillanti; o in una qualche combinazione di tutte queste cose così come si manifestano nella coscienza sensoriale. E malgrado le ripetute delusioni lo prendiamo per un difetto occasionale del sistema, un incidente di percorso, o pensiamo che sia colpa nostra. In occidente, colpa e vergogna sono più comuni dell’orgoglio come espressioni della credenza in un io. Se non ci sentiamo appagati dal mondo sensoriale pensiamo di avere qualcosa che non va, convinti come siamo che dovremmo esserlo.

Di conseguenza, è facile cadere in uno degli estremi: da un lato, l’ottimismo dell’ingenuità (“alla fine tutto si aggiusta”); dall’altro, il pessimismo della disperazione (“non ho avuto niente dalla vita; sono un fallito”). Ed eccoci alla deriva fra i due: dare la colpa agli altri e far valere le nostre ragioni, condannare la società e giustificare noi stessi; oppure giudicarci male e mettere gli altri sul piedistallo. Forse sentiamo che in un modo o nell’altro dovremmo tirarci fuori da questa situazione. Ma se la situazione siamo noi, come tirarcene fuori? Questo girare a vuoto, questo samsara, sta appunto nell’afferrarsi ai cinque aggregati come al proprio sé.

(1) The Dawn of the Dhamma: Illuminations from the Buddha’s First Discourse, by Sucitto Bhikkhu, Buddhadhamma Foundation, Bangkok 1995. Disponibile in formato elettronico su http://www.cittaviveka.org/files/books/dawn/index.htm

AGGIORNAMENTO:  Alla data di oggi (20/02/2020) l’edizione digitale non risulta più presente a quel link, né su altri siti. E’ però disponibile una nuova edizione illustrata, che rielabora il medesimo materiale, dal titolo Turning the wheel o f Dhamma, a questo link:

https://www.amaravati.org/dhamma-books/turning-the-wheel-of-dhamma/

La violenza dell’ideale

16 lunedì Nov 2015

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

≈ 5 commenti

All’indomani degli eventi di Parigi cerco di ascoltare e leggere le notizie e i commenti sui media, e ascoltare i pensieri e le emozioni che passano nella mente mia e delle persone che mi capita di incontrare. Non tanto per sapere, per capire, per farmi un’opinione, per partecipare, ma per navigare la superficie densa delle conoscenze, delle opinioni e delle reazioni preformate, collettivamente condivise, di numero finito, verso un possibile squarcio di silenzio, di sospensione, di non-comprensione, di spiazzamento – acque più chiare e fonde, densità non di contenuti ma di presenza, da cui talvolta emerge un sentimento o un pensiero nuovo. O da cui sia possibile sostenere e guardare con occhi nuovi, da un altro punto di vista, antichi sentimenti che la cultura e il condizionamento psicologico ci spingono a evitare o combattere, perché si trasformino in qualcosa di più sano e maturo che sostiene e nutre la vita, invece di mascherarla o impoverirla.

E’ la sfida di ogni disciplina contemplativa. Un’amica che pratica il Dhamma mi diceva come la notizia dell’attacco terroristico (con il corredo angoscioso degli scenari politici e sociali che evoca per tutti noi) l’abbia raggiunta nel relativo ‘isolamento’ di un ritiro di gruppo, catalizzando un’apertura di cuore inattesa, un più completo e spontaneo abbandono al calore, al flusso della compassione e della benevolenza inclusiva che si cercava di coltivare nella seduta fra le increspature e frammentazioni della mente distratta, incostante, svogliata o irrequieta. Il mio pensiero, ascoltando, è stato: le bombe spazzano via vite e speranza, ma anche preoccupazioni futili e barriere egocentriche.

Poteva succedere esattamente l’opposto: una goccia di realtà dissolve come un acido la pellicola protettiva della compiacenza e della falsa sicurezza, irridendo alla patetica ‘serenità’ del proprio angoletto ‘meditativo’: un guscio di noce in mezzo alle onde della reattività (e anche la piattezza della mente rattrappita e vacua è, a modo suo, uno tsunami) . Ma il guscio di noce travolto non è un gran male: almeno invita all’umiltà, e a riconsiderare la portata e la direzione dell’impegno richiesto dall’insegnamento e dalla disciplina del Buddha, lasciando cadere qualche idealizzazione e le semplificazioni di moda.

C’è una violenza nascosta, nell’apparente invulnerabilità della fede, che nel settarismo e nel fanatismo emerge in tutta la sua crudezza letterale , ma che vive simbioticamente in ogni forma di pratica o ideologia spirituale (in senso lato), dunque anche in quella buddhista, per quanto modernamente o scientificamente rivisitata, o coniugata con fedi occidentali.  Come uno di quegli innocui virus o batteri residenti di cui ignoriamo l’esistenza finché, in circostanze particolari o abbassandosi le difese immunitarie, non prolifera a dismisura danneggiando l’organismo.

Ho trovato molto utile e stimolante leggere questa riflessione di Marco Belpoliti che vi segnalo anche perché interrogandosi sui meccanismi psicologici che possono essere alla base di atti di violenza a sfondo ideologico e religioso va oltre l’idea del ‘mostro’ o della specificità islamica e, pur non colmandolo, invita a gettare un ponte sull’abisso della reciproca incomunicabilità http://www.doppiozero.com/materiali/commenti/cosa-c-e-nella-testa-degli-assassini-di-parigi

Cito la conclusione del suo articolo, con cui mi sento in consonanza, e la giro come domanda a quelli di voi che praticano il Dhamma, e a cui capita di leggere questo blog: “Non ho risposte davanti a questo interrogativo: non so cosa c’è nella loro testa. Non ho nessuna rassicurazione e nessuna consolazione. Posso solo trascrivere un’osservazione di Adam Phillips … ‘I fanatici sono persone che hanno dovuto aspettare troppo a lungo qualcosa che potrebbe non esistere’. Per questo uccidono, per questa non esistenza. Cosa possiamo opporre noi occidentali a tutto questo? Un’altra non esistenza? Difficile dirlo”.

Mi tornano alla mente le parole del mio insegnante, Ajahn Sumedho, sulla violenza dell’ideale, del ‘come dovrebbe essere’ che aliena dal ‘come è’  e lo fa vivere come irreparabilmente insoddisfacente, sbagliato, perfino persecutorio, e che rende intolleranti verso noi stessi e verso gli altri. L’ideale di pace, di sicurezza o di perfezione che oscura il potenziale di cambiamento e di liberazione insito nel cuore stesso della sofferenza, dell’incertezza, del non controllo, quando la si può abitare con intelligenza e con amore. Ci invitava a considerare come la meditazione o l’adesione a certi principi del Dhamma  può essere animata da una tensione, spesso inconscia, verso un Paradiso, un premio o una risoluzione che ci attende se facciamo la cosa giusta, la pratica giusta, quasi un rituale che può imporre sforzi e sacrifici, e che spesso richiede l’accettazione acritica dell’autorità di qualcuno che sembra averne le chiavi. La vita, o la pratica, come preparazione o attesa di ‘qualcosa’, che non sappiamo se esiste, ma in cui abbiamo disperatamente bisogno di credere.

Il Buddha parlava del nibbana, della pace del non attaccamento e della non identificazione, come ‘l’altra sponda’, o ‘la fine del mondo’, ma non lo prometteva come l’appagamento finale dei nostri desideri irrealistici o una condizione superumana destinata agli eletti credenti. Piuttosto, lo definiva come un lasciare la presa, abbandonare il desiderio e l’illusione che lo accompagna, senza soffocarlo o distruggerlo, qualcosa che si realizza direttamente in questa vita e che per essere compreso e apprezzato richiede, spesso, un processo graduale di maturazione. La maturità di vedere, e tollerare, le cose ‘così come sono’, incerte e non appaganti, senza rispondere con la violenza e il rifiuto.

Facile parlarne in teoria, come è facile parlare degli ideali occidentali di democrazia, tolleranza della complessità e della diversità, libertà individuale, non dogmatismo, rispondere alla violenza con la ragione, accettare l’imperfezione e vulnerabilità umana, eccetera.  A volte dimentichiamo che ci vogliono reali risorse interiori e condizioni esterne di supporto per essere veramente in grado di  vivere questi valori, come ci vogliono i denti per masticare il pane e un apparato sano per digerirlo. Non basta convincersi intellettualmente o imporre a sé o ad altri il rispetto di certi ideali: la rabbia, la disperazione, la paura, il bisogno di certezza e sicurezza di una mente fragile e mal nutrita, l’arroganza, la confusione del cambiamento, la realtà della violenza e del male, devono essere incontrati e compresi. Impresa non facile. Qualcuno di noi, forse molti, sembra non farcela. La condizione umana è un pane forse nutriente, ma per molti è assai duro, e amaro, e indigeribile. Lo è anche per me, in qualche circostanza. Se lo ricordo, ‘depongo il bastone e la spada, dimorando sollecito del bene di tutti’, come si dice nei Sutta parlando della compassione. Non è nulla, in un mare in tempesta. Ma, l’alternativa?

Ritiro residenziale a Tossignano (Bologna)

08 domenica Nov 2015

Posted by Letizia Baglioni in Pratica buddhista

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Tranquillità e visione profonda

Villa Santa Maria, Tossignano (Bologna)
4-8 dicembre 2015

Sono ancora disponibili posti per questo ritiro di meditazione  – INFO QUI

PER iscrizioni scrivere a inforitiri@gmail.com possibilmente entro il 20 novembre

Immagine1In questo ritiro esploreremo il significato e le implicazioni pratiche dei termini samatha e vipassanā secondo l’insegnamento del Buddha documentato dagli strati più antichi della letteratura canonica, e chiariremo il ruolo complementare dello sviluppo di concentrazione e comprensione, quiete e investigazione, all’interno dell’ottuplice sentiero.

La sede è villa santa maria, vicino Imola, nel comune di tossignano (BO) Per i dettagli e suggerimenti per il trasporto vedi la locandina informativa

Testi da scaricare qui

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