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Il blog di Letizia Baglioni

Archivi tag: Sutta

Il lebbroso

11 lunedì Dic 2017

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

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Tag

anupubbikatha, entrata nella corrente, esposizione graduale, sotapanna, Sutta

Traduco di seguito la prima parte del Suppabuddhakuṭṭhi Sutta (Udāna 5.3). Il brano dà esempio di uno stile di insegnamento del Buddha noto come “esposizione graduale” o “passo per passo” (ānupubbīkathā), la cui formula standard è incorniciata dalla storia commovente del protagonista Suppabuddha. Acquisire lo “sguardo del Dhamma” che coglie l’impermanenza e le sue implicazioni liberanti è un sinonimo di “entrata nella corrente”, il primo grado del risveglio, l’accesso al nobile ottuplice sentiero. Il paragrafo conclusivo è una pericope che spesso descrive il sotapanna e lo spostamento subitaneo di prospettiva provocato da un discorso del Buddha. Un buon commento moderno all’insegnamento graduale e alla logica che connette i vari passi della pratica lo trovate nel libretto di Achaan Sucitto, Kalyana, edito da Astrolabio.

Mi sono presa qualche piccola libertà con il testo per renderlo scorrevole e di immediata comprensione ma senza alterare o omettere nulla (p. es. rendo con “pane e companatico” un’espressione pali che designa cibi duri e soffici, oppure  gli alimenti base – immagino riso o simili  – e le pietanze, salse ecc. “Pane e minestra” , evocativo di una mensa dei poveri, sarebbe stato un altro modo per rendere bene l’equivoco dello speranzoso Supabuddha). Una versione inglese dell’intero testo, con link all’originale pali si può leggere QUI  

Ho udito che in una certa occasione il Beato dimorava presso Rājagaha nel Boschetto di Bambù, al Rifugio degli scoiattoli. A quel tempo viveva a Rājagaha un lebbroso di nome Suppabuddha, un pover’uomo che mendicava per vivere. Un giorno, il Beato stava insegnando il Dhamma circondato da un gran numero di persone.

Suppabuddha il lebbroso vide da lontano quella folla e pensò: “Senza dubbio qualcuno distribuisce pane e companatico laggiù. Magari mi unisco anch’io a quella folla, così rimedio qualcosa da mangiare”. Dunque si avvicinò, e vide il Beato che insegnava il Dhamma in mezzo a una grande assemblea. Vedendo questo pensò: “No, nessuno distribuisce pane e companatico qui. Quello è Gotama il contemplativo che insegna alla gente. E se ascoltassi il suo insegnamento?”. Perciò si mise seduto in un angolo pensando: “Anch’io voglio ascoltare il Dhamma”.

Allora il Beato, avendo abbracciato con la propria mente la mente dell’intera assemblea, si chiese: “Adesso, qui, chi è capace di comprendere il Dhamma?”. Vide Suppabuddha il lebbroso seduto in mezzo agli altri e nel vederlo pensò: “Questa persona è capace di comprendere il Dhamma”. Così, pensando a Suppabuddha il lebbroso, fece un’esposizione graduale, cioè un discorso sulla generosità, sulla virtù, sui mondi celesti, spiegò gli inconvenienti, la pochezza e la corruzione dei piaceri dei sensi e il vantaggio della rinuncia.

Poi, quando vide che la mente di Suppabuddha il lebbroso era pronta, duttile, sgombra, ispirata e pura, espose l’insegnamento caratteristico dei risvegliati, cioè: la sofferenza, l’origine, la cessazione e il sentiero. E come una stoffa pulita e senza macchie assorbe il colore, allo stesso modo a Suppabuddha il lebbroso,  seduta stante, si dischiuse lo sguardo del Dhamma, chiaro e limpido: “Tutto ciò che sorge, cessa”.

Avendo visto il Dhamma, raggiunto il Dhamma, conosciuto il Dhamma, preso possesso del Dhamma, essendo andato oltre il dubbio superando la perplessità e divenuto intrepido e autonomo per quel che concerne il messaggio del maestro, Suppabuddha si alzò dal suo posto e si accostò al Beato. Dopo averlo salutato rispettosamente si sedette da un canto e stando seduto lì gli si rivolse dicendo: “Splendido, signore! Splendido! Come se avesse raddrizzato una cosa capovolta, rivelato un nascondiglio, mostrato la via a chi si è perso, portato una lampada nel buio perché chi ha occhi per vedere veda – allo stesso modo il Beato, con diversi argomenti, mi ha chiarito il Dhamma. Prendo rifugio nel Beato, nell’insegnamento e nella comunità dei monaci. Che il Beato mi ricordi come un discepolo laico che da questo momento ha preso rifugio in lui finché avrà vita”.

Un grumo di schiuma

07 martedì Nov 2017

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

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Tag

dukkha, khandha, Sutta

Quel che segue è una versione italiana del Pheṇa­piṇ­ḍūpama­ sutta – Saṃyutta Nikāya 22.95. Il testo pāli e la traduzione inglese di Bhikkhu Bodhi possono essere consultati QUI  Ho omesso i versi conclusivi, che non aggiungono alla sostanza del discorso in prosa.

In una certa occasione il Beato dimorava ad Ayojjhā sulle sponde del  Gange. Lì il Beato si rivolse ai bhikkhu:

“Immaginate un grosso grumo di schiuma portato dalla corrente del fiume, e che un uomo di buona vista lo osservi, consideri ed esamini attentamente. Avendolo osservato, considerato ed esaminato attentamente gli apparirebbe vuoto, inconsistente e privo di sostanza. E quale sostanza potrebbe esservi in un grumo di schiuma?  schiuma

Allo stesso modo, qualunque forma – passata, futura o presente, interna o esterna, grossolana o sottile, infima o eccellente, lontana o vicina – un bhikkhu la osserva, considera ed esamina attentamente. E avendola osservata, considerata ed esaminata attentamente gli appare vuota, inconsistente e priva di sostanza.  E quale sostanza potrebbe esservi nella forma?

Immaginate una bolla d’acqua che si forma e dissolve sull’acqua, quando d’autunno cadono grosse gocce di pioggia; e che un uomo di buona vista la osservi, consideri ed esamini attentamente. Avendola osservata, considerata ed esaminata attentamente gli apparirebbe vuota, inconsistente e priva di sostanza. E quale sostanza potrebbe esservi in una bolla d’acqua?  pioggiaAllo stesso modo, qualunque sensazione – passata, futura o presente, interna o esterna, grossolana o sottile, infima o eccellente, lontana o vicina – un bhikkhu la osserva, considera ed esamina attentamente. E avendola osservata, considerata ed esaminata attentamente gli appare vuota, inconsistente e priva di sostanza. E quale sostanza potrebbe esservi in una sensazione?

Immaginate un miraggio che luccica a mezzogiorno nell’ultimo mese della stagione calda, e che un uomo di buona vista lo osservi, consideri ed esamini attentamente. Avendolo osservato, considerato ed esaminato attentamente gli apparirebbe vuoto, inconsistente e privo di sostanza. E quale sostanza potrebbe esservi in un miraggio? miraggio Allo stesso modo, qualunque percezione – passata, futura o presente, interna o esterna, grossolana o sottile, infima o eccellente, lontana o vicina – un bhikkhu la osserva, considera ed esamina attentamente, e avendola osservata, considerata ed esaminata attentamente gli appare vuota, inconsistente e priva di sostanza.  E quale sostanza potrebbe esservi in una percezione?

Immaginate qualcuno che avendo bisogno di legname e andando in cerca di legname vada nel bosco con un’ascia affilata per procurarsi il legname. Lì vede il fusto di un grande banano – dritto, rigoglioso, senza infiorescenze. Lo abbatte, taglia il ciuffo e srotola il fusto, ma srotolato il fusto non trova neppure l’alburno, tanto meno il durame. A un uomo di buona vista che lo osservi, consideri ed esamini attentamente apparirebbe vuoto, inconsistente e privo di sostanza. E quale sostanza potrebbe esservi in un fusto di banano?  cross-section-pseudostemAllo stesso modo, qualunque volizione – passata, futura o presente, interna o esterna, grossolana o sottile, infima o eccellente, lontana o vicina – un bhikkhu la osserva, considera ed esamina attentamente, e avendola osservata, considerata ed esaminata attentamente gli appare vuota, inconsistente e priva di sostanza.  E quale sostanza potrebbe esservi nelle volizioni?  

Immaginate un mago, o l’apprendista di un mago, che esegue un incantesimo a un crocicchio, e che un uomo di buona vista lo osservi, consideri ed esamini attentamente. Avendolo osservato, considerato ed esaminato attentamente gli apparirebbe vuoto, inconsistente e privo di sostanza. E quale sostanza potrebbe esservi in un incantesimo? Allo stesso modo, qualunque coscienza – passata, futura o presente, interna o esterna, grossolana o sottile, infima o eccellente, lontana o vicina – un bhikkhu la osserva, considera ed esamina attentamente, e avendola osservata, considerata ed esaminata attentamente gli appare vuota, inconsistente e priva di sostanza.  E quale sostanza potrebbe esservi nella coscienza? 

Alla luce di ciò, il nobile discepolo che conosce gli insegnamenti perde interesse per la forma, le sensazioni, i concetti, le volizioni, la coscienza. Avendo perso interesse è distaccato, e il distacco lo libera. Quando è libero sa: ‘Libero’. Allora capisce: ‘La nascita è estinta, la vita santa è compiuta, quel che andava fatto è stato fatto, non c’è altro per l’esistenza’”. Questo è ciò che disse il Beato.

NOTE ALLA TRADUZIONE

Forma, ecc. Ossia i cinque gruppi di appropriazione (pañcupādānakkhandhā), processi condizionati e impermanenti su cui si basa la costruzione dell’io e del mio e la sofferenza che ne deriva. Per una esposizione del concetto di khandhā (comunemente noti come “aggregati”) nei discorsi antichi, vedi Anālayo Bhikkhu, Satipaṭṭhāna: The Direct Path to Realization cap. X –  PER UN ESTRATTO IN ITALIANO CLICCA QUI    Una descrizione esperienziale dei cinque khandha come ‘tessiture o consistenze dell’essere’, utile per la pratica di consapevolezza è quella di Achaan Sucitto: vedi Anapanasati_2 (Corpo sottile e tessiture dell’essere)

Osserva, considera, esamina attentamente …  “passati nijjhāyati yoniso upaparikkhati” i tre verbi in sequenza sono quasi sinonimi ma suggeriscono un’intensificazione progressiva, l’esercizio di una qualità di investigazione, discernimento o visione penetrante (vipassanā). Nijjhāyati è forse più forte del nostro ‘considera’, e implica una sostenuta riflessione o meditazione (ma voglio evitare giri di frase e conservare un bel ritmo!) . Yoniso è più specifico di ‘attentamente’ o ‘accuratamente’ e rimanda etimologicamente all’andare ‘alla radice’ (ma anche qui scelgo semplicità e immediatezza). Sul significato di yoniso vedi anche gli appunti dal ritiro Attenzione accurata e i relativi discorsi nella sezione AUDIO di questo blog, in particolare il n. 3 “comprendere dukkha”.

Un fusto di banano … Il banano è in realtà una pianta erbacea prodotta da un bulbo-tubero e il suo pseudofusto, che muore dopo la maturazione dei frutti, è formato da vari strati di foglie strettamente arrotolate a spirale e non contiene alcuna sostanza legnosa o nucleo. In altre parole, la guaina delle foglie non si innesta su alcun ‘fusto’, ma le foglie si sostengono a vicenda creando un effetto di compattezza e la tipica sezione ad anelli (visibile in foto) che solo formalmente ricorda quella di un albero. Analogamente, la dinamica delle volizioni (intenzioni, impulsi, desideri, tendenze, schemi mentali, abitudini, processi inconsci o preconsci che generano pensieri ed emozioni … sotto l’egida dell’ignoranza e dell’attaccamento) crea l’impressione di un agente o soggetto da cui promanano, a cui si appoggiano o appartengono, ma a un esame accurato tale dinamica si rivela ‘vuota’ di un io o mio e di alcunché di permanente, consistente e soddisfacente.

L’incantesimo di un mago …  māyā si può anche rendere con ‘gioco di prestigio’, nel senso di un trucco di magia che ci fa vivere ed esperire come credibile, coerente e sostanziale un fluido caledoscopio di fenomeni incostanti e condizionati. Comprendere il carattere illusionistico della coscienza (che emerge dal contatto fra le sei basi sensoriali interne ed esterne ed è plasmata da volizioni e tendenze) mina l’implicito sentimento di realtà oggettiva e valore che tendiamo a impartire alla nostra esperienza del mondo e di un ‘io’ che lo conosce.

Afflitto nel corpo, non nella mente

27 mercoledì Set 2017

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

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Tag

anatta, khandha, non identificazione, Sutta

Traduco di seguito il Discorso a Nakula­pi­ta – Saṃyutta Nikāya 22.1. Il testo pali e le versioni inglesi consultate sono disponibili su  https://suttacentral.net/pi/sn22.1  A breve un post di commento. 

COSI’ HO UDITO. Una volta il Beato dimorava fra i Bhagga a Suṃsumaragira,  nel parco delle gazzelle della foresta di Bhesakaḷa. Allora il laico Nakulapita si recò dal Beato, porse i suoi omaggi, si sedette da un canto e gli disse:

“Sono vecchio, signore, anziano, carico d’anni, all’ultimo stadio, sofferente nel corpo e sovente malato. Raramente ho occasione di vedere il Beato e i monaci degni di stima. Che il Beato mi esorti e mi istruisca, signore, così che torni a mio vantaggio e duraturo beneficio”.

“Proprio così, capofamiglia, proprio così. Questo tuo corpo è afflitto, oppresso, aggravato. Se qualcuno portasse in giro questo corpo affermando che è sano, sia pure occasionalmente, non parlerebbe a vanvera? Perciò, capofamiglia, devi praticare così: ‘Per quanto sia afflitto nel corpo, la mia mente non soffrirà’. Ecco come dovresti praticare”.

Allora Nakulapita, soddisfatto e grato per le parole del Beato, si alzò, porse i suoi omaggi e si recò dal venerabile Sāriputta. Dopo aver salutato il venerabile Sāriputta, si sedette da un canto. Il venerabile Sāriputta disse:

“Capofamiglia, i tuoi sensi sono in pace, il tuo incarnato è chiaro e luminoso. Hai forse ascoltato un discorso sul Dhamma, oggi, alla presenza del Beato?”

“Come no, signore! Proprio adesso son stato asperso con l’ambrosia di un discorso sul Dhamma”.

“E con che genere di ambrosia di discorso sul Dhamma sei stato asperso dal Beato?”

[Nakulapita riferisce la conversazione avuta con il Buddha]

“Ma non hai pensato di chiedere al Beato in che modo si è afflitti nel corpo e nella mente, e in che modo si è afflitti nel corpo, ma non nella mente?”.

“Verrei da lontano per farmelo spiegare dal venerabile Sāriputta. Sarebbe bene se il venerabile Sariputta chiarisse il senso di quelle parole”.

“Allora ascolta e fai bene attenzione, capofamiglia, parlerò”.

“Sì, signore”, replicò Nakulapita. Il venerabile Sāriputta disse:

“E COME SI E’ AFFLITTI nel corpo e afflitti nella mente? Ecco, capofamiglia: una persona ordinaria che non conosce gli insegnamenti, che non frequenta i nobili e non è esperta e addestrata nella nobile pratica, che non frequenta i buoni e non è esperta e addestrata nella buona pratica, considera la forma come il sé, o come appartenente al sé, considera la forma nel sé, o il sé nella forma. E’ dominata dall’idea ‘Sono la forma, la forma è mia’. Mentre vive dominata da questa idea, la forma cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della forma prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Considera la sensazione come il sé, o come appartenente al sé, considera la sensazione nel sé, o il sé nella sensazione. E’ dominata dall’idea ‘Sono la sensazione, la sensazione è mia’. Mentre vive dominata da questa idea, la sensazione cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della sensazione prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Considera la percezione come il sé, o come appartenente al sé, considera la percezione nel sé, o il sé nella percezione. E’ dominata dall’idea ‘Sono la percezione, la percezione è mia’. Mentre vive dominata da questa idea, la percezione cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della percezione prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Considera le volizioni come il sé, o come appartenenti al sé, considera le volizioni nel sé, o il sé nelle volizioni. E’ dominata dall’idea ‘Sono la volizione, la volizione è mia’. Mentre vive dominata da questa idea, la volizione cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della volizione prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Considera la coscienza come il sé, o come appartenente al sé, considera la coscienza nel sé, o il sé nella coscienza. E’ dominata dall’idea ‘Sono la coscienza, la coscienza è mia’. Mentre vive dominata da questa idea, la coscienza cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della coscienza prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

 “Ecco come si è afflitti nel corpo e afflitti nella mente”.

“E COME SI E’ AFFLITTI nel corpo, ma non nella mente? Ecco, capofamiglia: il nobile discepolo che conosce gli insegnamenti, che frequenta i nobili ed è esperto e addestrato nella nobile pratica, che frequenta i buoni ed è esperto e addestrato nella buona pratica, non considera la forma come il sé, o come appartenente al sé, non considera la forma nel sé, o il sé nella forma. Non è dominato dall’idea ‘Sono la forma, la forma è mia’. Mentre vive non dominato da questa idea, la forma cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della forma, non prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Non considera la sensazione come il sé, o come appartenente al sé, non considera la sensazione nel sé, o il sé nella sensazione. Non è dominato dall’idea ‘Sono la sensazione, la sensazione è mia’. Mentre vive non dominato da questa idea, la sensazione cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della sensazione non prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Non considera la percezione come il sé, o come appartenente al sé, non considera la percezione nel sé, o il sé nella percezione. Non è dominato dall’idea ‘Sono la percezione, la percezione è mia’. Mentre vive non dominato da questa idea, la percezione cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della percezione non prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Non considera le volizioni come il sé, o come appartenenti al sé, non considera le volizioni nel sé, o il sé nelle volizioni. Non è dominato dall’idea ‘Sono la volizione, la volizione è mia’. Mentre vive non dominato da questa idea, la volizione cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della volizione non prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Non considera la coscienza come il sé, o come appartenente al sé, non considera la coscienza nel sé, o il sé nella coscienza. Non è dominato dall’idea ‘Sono la coscienza, la coscienza è mia’. Mentre vive non dominato da questa idea, la coscienza cambia e si altera. Con il cambiamento e l’alterazione della coscienza non prova tristezza, pena, disagio, scontento e angoscia.

“Ecco come si è afflitti nel corpo, ma non nella mente”.

Così parlò il venerabile Sāriputta. Lieto, Nakulapita apprezzò le parole del venerabile Sāriputta.

I quattro jhana

27 giovedì Apr 2017

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

≈ 9 commenti

Tag

jhana, meditazione di consapevolezza, metafora, retta concentrazione, samadhi, Sutta, Sāmañ­ña­phala­sutta

Riprendiamo la traduzione della sezione centrale del Sāmañ­ña­phala­sutta, il Discorso sui frutti della vita contemplativa (Dīgha Nikāya 2) VEDI ARTICOLO PRECEDENTE.

Superati i cinque impedimenti – qualità non salutari che ostruiscono la consapevolezza e indeboliscono il discernimento – il campo dell’esperienza si semplifica e si chiarifica, la mente si acquieta e la meditazione decolla dando luogo al processo che nell’ottuplice sentiero del Buddha va sotto il nome di retta concentrazione o sammā samādhi.

Le vivide e puntualissime similitudini che descrivono i quattro jhāna (termine frequentemente ma impropriamente tradotto con ‘assorbimento’ o addirittura ‘trance’) si ritrovano altrove nei Nikāya (cfr. p. es. Anguttara Nikāya 5.28 e Majjhima Nikaya 119) e completano il passo standard che definisce ciascuno dei quattro stati contemplativi in termini di graduale ‘alleggerimento’ e pacificazione.

[Primo jhāna ] 

“Separato dagli oggetti dei sensi, separato da qualità non salutari, entra e rimane nel primo jhāna: gioia e piacere della solitudine associati all’applicazione e all’esame. Pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e il piacere della solitudine, così che non vi è parte del suo intero corpo che non sia soffuso di gioia e piacere.

“Grande re, immagina un abile addetto ai bagni, o il suo apprendista, che versa polvere di sapone in un bacile, la spruzza d’acqua e la impasta per formare una palla, così che la palla di sapone sia intrisa d’umidità, pervasa e soffusa d’umidità dentro e fuori senza però gocciolare.  Allo stesso modo, il bhikkhu pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e il piacere della solitudine, così che non vi è parte del suo intero corpo che non sia soffuso di gioia e piacere. Questo, gran re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti.

[Secondo jhāna ]

“Inoltre, grande re, venendo meno l’applicazione e l’esame entra e rimane nel secondo jhāna: fiducia interiore e concentrazione mentale senza applicazione né esame, gioia e piacere dell’unificazione. Pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e il piacere dell’unificazione, così che non vi è parte del suo intero corpo che non sia soffusa di quella gioia e piacere.

“Grande re, immagina un lago profondo con una sorgente interna, che non riceve immissioni da est, ovest, nord o sud e non è alimentato da piogge stagionali. Ma una corrente d’acqua fresca che sgorga dal basso pervade, permea, satura e soffonde tutto il lago, così che non vi è parte di esso che non sia soffuso d’acqua fresca. Allo stesso modo, il bhikkhu pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e piacere dell’unificazione, così che non vi è parte del suo corpo che non sia soffusa di tale gioia e piacere. Anche questo, grande re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti.

[Terzo jhāna ]

“Inoltre, grande re, con lo svanire della gioia resta equanime, consapevole e chiaramente cosciente, fisicamente sensibile al piacere; entra e rimane nel terzo jhāna di cui i nobili dicono: “Ha una piacevole dimora chi è equanime e consapevole”.

“Grande re, immagina uno stagno in cui vi siano loti azzurri, bianchi o rossi nati nell’acqua, cresciuti nell’acqua, che non si ergono al di sopra dell’acqua ma fioriscono immersi nell’acqua. Dalla punta delle radici sarebbero pervasi, permeati, saturi e soffusi d’acqua fresca, così che non vi sarebbe parte di quei loti non permeata d’acqua fresca.  Allo stesso modo, il bhikkhu pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con quel piacere senza esultanza, così che non vi è parte del suo corpo che non sia soffusa di quel piacere senza esultanza. Anche questo, grande re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti.

[Quarto jhāna]

 “Inoltre, grande re, abbandonati piacere e dolore e tramontate già letizia e mestizia, entra e rimane nel quarto jhāna: né piacevole né spiacevole, presenza mentale purificata dall’equanimità. Siede soffondendo il proprio corpo con una mente pura e limpida, così che non vi è parte del suo corpo che non sia soffusa di una mente pura e limpida.

“Grande re, immagina qualcuno che siede avvolto dalla testa ai piedi in un panno bianco, così che non vi è parte del suo corpo che non sia sfiorata dal panno bianco. Allo stesso modo, il bhikkhu siede soffondendo il proprio corpo con una mente pura e limpida, così che non vi è parte del suo corpo che non è soffusa da una mente pura e limpida. Anche questo, grande re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti”.

NOTE ALLA TRADUZIONE

“Grande Re”:  Si tratta di Ajātasattu re di Kosala, che vuole capire quali siano i vantaggi e i frutti concreti della vita di rinuncia condotta dal Buddha e dai suoi seguaci rispetto a quelli che si ottengono dedicandosi a mestieri e attività ordinari. Alla figura di questo re parricida e ai suoi rapporti con Gotama Stephen Batchelor dedica interessanti pagine in Confessione di un ateo buddhista (Astrolabio – Ubaldini ed)

Viveka: Qui lo rendo con ‘solitudine’, ma il participio passato del verbo (vivicca) con ‘separato’. Il primo jhana nasce da viveka sia nel senso dell’essere fisicamente appartati e separati dagli stimoli sensoriali (kaya viveka), sia nel senso della solitudine del cuore (citta viveka), felicemente separato da pensieri e qualità non salutari. Un luogo protetto, esternamente e internamente.

“Applicazione ed esame” rendono qui vitakka & vicāra. In alternativa: attenzione applicata e sostenuta. I due termini indicano generalmente un’attività mentale riflessiva o discorsiva e si traducono con ‘pensiero’ (vedi ad esempio il Discorso sui Due tipi di pensiero) Qui però l’espressione si riferisce a una semplice forma di lucida attenzione pre-verbale, un movimento mentale che rende il primo jhāna meno stabile e compatto del secondo.

“Unificazione” (samādhi) e “concentrazione mentale” (cetaso ekodibhāvaṃ) segnano appunto il secondo jhāna, che il Buddha definisce “nobile silenzio”. Qui il controllo e la volontà, ancora attivi nella fase precedente, si placano.  

“Gioia e piacere”: pīti sukhaṃ  La prima è un’inclinazione dell’intenzione, il secondo una tonalità affettiva. La qualità dell’esperienza complessiva varia notevolmente (secondo uno schema riconoscibile) con l’approfondirsi del processo, dal primo al terzo jhana. Varia inoltre a seconda della maturità del meditante. Alternative per pīti: Godimento, gusto, estasi, trasporto, esultanza. Non importa trovare la traduzione perfetta, ma comprendere che i due termini non indicano UNO stato mentale specifico ma additano una direzione: il meditante impara a restare interiormente fermo, rilassato, abbandonato e distaccato mentre l’esperienza psicofisica si intensifica, sciogliendo la naturale reattività e avidità collegata alla sensazione piacevole. La sensazione dunque si modula e infine si placa attraverso il disincanto e il lasciar andare, quindi in dipendenza dall’atteggiamento mentale che tende all’equanimità. Sapere come far emergere, espandere, e poi rifluire la pervasiva gioia della concentrazione è il cuore dell’arte di samatha, che è essenzialmente un gesto di regolazione e intelligenza emotiva.

“Piacere e dolore”: La coppia di opposti sukha – dukkha sta per l’intero spettro della polarità fondamentale (agio – disagio).

“Letizia e mestizia”: La coppia somanassa – domanassa implica qualcosa di più chiaramente psicologico, una valutazione dell’esperienza. Nell’istruzione del Buddha su come stabilire la presenza mentale (satipatthana) è centrale abbandonare domanassa (lo scontento o scoraggiamento nei confronti del mondo) come pure il suo opposto (esaltazione, eccitazione, aspettative, desideri). Qui è un chiaro riferimento alla precedente pratica di consapevolezza, come presupposto della pacificazione (samatha).

“Il proprio corpo” imameva kāyaṃ. Occorre notare che il termine kāya ha il significato letterale di aggregato, collezione, insieme, gruppo, congerie, raccolta ecc. (cfr la nostra accezione di corpus, ad esempio l’insieme o collezione di testi letterari). Per estensione designa anche (ma non solo) il corpo anatomico. Permeare “il corpo” con la gioia il piacere e la pura equanimità della meditazione è chiaramente associato alla pratica di satipatthana nel Discorso sulla consapevolezza del corpo (Kāyaga­tā­sati­sutta, MN 119), e la presenza della formula dei 4 jhāna e di queste stesse similitudini in analogo contesto nei paralleli cinesi attesta l’antichità di questa istruzione accanto alle altre modalità o prospettive da cui contemplare il corpo (come un insieme di organi, dal punto di vista dell’inspirare ed espirare, come un organismo che decade e si decompone, ecc.).

Alcuni (fra cui Bhante Sujato e Ajahn Brahmali, vedi un esempio di discussione QUI)  obiettano a questa interpretazione/traduzione sulla base del fatto che, a fronte dell’unificazione mentale e conseguente cessazione dell’esperienza sensoriale esterna, la percezione del corpo (in senso tattile) si dissolve, e l’estendere la sensibilità/consapevolezza all’intero “corpo” andrebbe in direzione opposta rispetto alla focalizzazione dell’attenzione e all’abbandono dell’attività volizionale che caratterizzano il processo del jhāna.

Inoltre, l’espressione kāyena (strumentale che si può rendere “con il corpo“, o “fisicamente”)  è frequente nei Discorsi con il valore idiomatico di “personalmente”, “direttamente”, “da sé”; ad esempio dove si parla di sperimentare direttamente la liberazione, o conoscere personalmente gli stati di concentrazione senza forma, ecc. Senza attardarmi in complesse questioni filologiche (chi è interessato può seguire un’interessante discussione dell’argomento QUI) vi sarebbero buone ragioni per intendere i riferimenti a kāya nel contesto dei jhāna semplicemente nel senso di “se stesso” o “la sua persona”, o “la sua esperienza interiore” (il meditante pervade se stesso, si soffonde, permea tutto il campo della coscienza  con la gioia e il piacere della meditazione).

Personalmente credo che in pratica la differenza sia minima: l’esperienza soggettiva di ciò che definiamo ‘corpo’ o ‘me stesso’ si modifica molto a seconda degli stati di coscienza e con l’approfondirsi della meditazione e della quiete, e varia moltissimo da persona a persona. Vi sono alcuni che hanno di norma una vaga e intermittente consapevolezza del proprio corpo, legata al contatto con oggetti esterni o a sensazioni marcate (tipicamente sgradevoli) e tendono a identificare se stessi coi pensieri. Altri partono da una sensibilità globale della presenza corporea, che tende a espandersi, alleggerirsi e sfumare con il progredire della quiete. L’ossessione di determinare che cosa esattamente il meditante “pervade, permea, satura e soffonde … con la gioia e piacere della solitudine” mi pare tipica di una mentalità lontana dall’epistemologia dei Discorsi antichi e dalla visione olistica, esperienziale della meditazione, per cui non si dà una realtà fisica oggettiva separata da una “mente” che la conosce. Sarei tentata di tradurre: “Soffonde questa roba qui con il piacere e la gioia …”. Una sfera di coscienza pulsante è pur sempre “un corpo”, tanto quanto uno gnocco difforme di vario peso e consistenza.

Solitudine e Comunità

19 mercoledì Apr 2017

Posted by Letizia Baglioni in Aggiornamenti

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Tag

Bodhi College, Buddhismo delle origini, sangha, Sutta, viveka

Bodhi-Institute-logo3

SI E’ CONCLUSO il ritiro di studio a Tossignano Bologna (31 marzo-5 aprile) dedicato al tema Solitudine e Comunità  – vedi locandina del corso 2017

GRAZIE di cuore a tutti  per l’impegno personale e il clima di comunità che avete contribuito a creare, notato e apprezzato da molti partecipanti. Senza il sostanzioso lavoro organizzativo offerto generosamente da alcuni dei partecipanti non sarebbe stato possibile né per gli insegnanti, né per Bodhi College, realizzare questo incontro.

QUI sotto è disponibile il link ai file audio delle presentazioni tenute da Stephen Batchelor e Letizia Baglioni, che si possono scaricare sul proprio dispositivo oppure ascoltare in streaming (aprendoli in Google-Drive con Google Player) ignorando l’avviso antivirus:

AUDIOSolitudine&ComunitàTossignano2017

INOLTRE, potete scaricare il pdf con alcune citazioni e riferimenti dai sutta del canone pali per proseguire lo studio e l’approfondimento dei temi trattati:

TESTITossignano2017

ALTRI testi utilizzati per questo corso sono stati tradotti VEDI QUI o in via di traduzione su questo blog.

CHI volesse continuare a riflettere su questo tema, da una prospettiva diversa ma complementare,  potrebbe trovare utili gli spunti di pratica e i materiali di un recente LABORATORIO MESTRE attorno alla metafora del VILLAGGIO E LA FORESTA.

Abbandonare i cinque impedimenti

18 martedì Apr 2017

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

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cinque impedimenti, meditazione di consapevolezza, metafora, retta concentrazione, samadhi, Sutta

Quel che segue è la traduzione di una sezione del Sāmañ­ña­phala­sutta, il Discorso sui frutti della vita contemplativa (Dīgha Nikāya 2).

Con questa famosa serie di immagini il Buddha illustra la condizione di chi è sotto l’egida dei cinque impedimenti – schemi mentali non salutari che ostruiscono la consapevolezza e indeboliscono il discernimento – e l’importanza di assaporare la libertà da essi come fonte di un naturale sollievo ‘endogeno’ che innesca il circolo virtuoso della concentrazione, o per meglio dire dell’unificazione della mente/cuore.

Il brano appartiene alla sezione del Discorso dedicata agli aspetti dell’addestramento contemplativo che vengono riassunti sotto l’etichetta Samādhi  e che include le seguenti pratiche:

  • Indriyasaṃvara (contenimento o custodia dei sensi)
  • Satisampajañña (presenza mentale e consapevolezza situazionale)
  • Santosa (l’essere paghi di ciò che si ha)
  • Nīvara­ṇap­pahāna (l’abbandono dei 5 impedimenti)
  • 4 Jhāna (stati progressivi di quiete e unificazione)

Questa sezione è preceduta da quella sul comportamento e l’etica (Sīla) e precede a sua volta la sezione sulla conoscenza superiore (Aṭṭhañāṇa), dedicata alla visione penetrante (Vipassanāñāṇa) e alle conoscenze speciali derivanti dai poteri psichici e dalla neutralizzazione dei condizionamenti profondi o “influssi” (āsava).

“Dotato di tutto ciò che è pertinente alla moralità di un nobile discepolo, dotato della padronanza dei sensi, della presenza mentale e consapevolezza e dell’appagamento di un nobile, [il contemplativo] si reca in un luogo appartato – nella foresta, ai piedi di un albero, sui monti o in una valle, in una grotta, in un campo di cremazione, in una radura, all’aria aperta, su un mucchio di paglia. Al ritorno dalla questua del cibo, dopo il pasto, si siede a gambe incrociate con la schiena eretta e stabilisce la presenza mentale innanzi a sé.   

“Abbandonata la cupidigia nei riguardi del mondo, dimora con la mente libera dalla cupidigia, purifica la propria mente dalla cupidigia. Abbandonati rancore e avversione, dimora con una mente benevola,  che ha a cuore il bene di ogni creatura, purifica la propria mente dal rancore e dall’avversione. Abbandonati l’indolenza e il torpore, dimora percependo la luce, consapevole e chiaramente cosciente, purifica la propria mente da indolenza e torpore. Abbandonate irrequietezza e ansia, è in pace con se stesso, con una mente serena, purifica la propria mente da irrequietezza e ansia. Abbandonato il dubbio, dimora come qualcuno che non ha dubbi o incertezze riguardo a ciò che è salutare, purifica la propria mente dal dubbio.

“Grande re, immagina uno che prende una somma in prestito e la investe, e che i suoi affari vadano bene tanto che, una volta ripagato il debito, gli resti abbastanza da mantenere sua moglie. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina uno che è infermo, sofferente, gravemente malato, tanto che non gusta più il cibo e ha perso le forze. A un certo punto guarisce dalla malattia, ricomincia a gustare il cibo e recupera le forze. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina uno che viene messo in prigione. A un certo punto viene rilasciato, incolume e senza perdite economiche. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina uno schiavo, che non è indipendente ma è sottoposto ad altri e non può andare dove vuole. A un certo punto viene affrancato e diventa indipendente; non è più sottoposto ad altri e può andare dove vuole. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina un uomo facoltoso che viaggia su una strada deserta dove il cibo è scarso e i pericoli abbondano. A un certo punto esce da quella strada deserta e arriva sano e salvo in un posto sicuro. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“Allo stesso modo, grande re, quando un contemplativo vede che questi cinque impedimenti non sono stati abbandonati dentro di sé, si sente come se fosse indebitato, malato, incarcerato, schiavo, su una strada deserta.

“Ma quando vede che questi cinque impedimenti sono stati abbandonati dentro di sé, si sente come uno che è senza debiti, in buona salute, libero, indipendente, in un posto sicuro.

“Quando vede che questi cinque impedimenti sono stati abbandonati dentro di sé, prova sollievo. Provando sollievo, sorge la gioia. Quando la mente prova gioia il corpo è tranquillo; la quiete fisica predispone all’agio. La mente di chi è a proprio agio si unifica”.   (continua in QUESTO POST)


Altri materiali utili potete trovarli a questi link:

SATIPAṬṬHĀNA SUTTA Majjhima Nikāya 10  (sezione sulla contemplazione dei 5 impedimenti)

Similitudini dai sutta sui cinque impedimenti NIVARANA

E cliccate sui tag (o argomenti) di questo articolo per trovare altri post dedicati a cinque impedimenti, concentrazione, ecc.

Il setacciatore

11 venerdì Nov 2016

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

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cinque impedimenti, metafora, orafo, pamsudhovaka sutta, purificazione della mente, retta concentrazione, samadhi, samatha, setacciatore, Sutta

Quel che segue è una versione italiana (con qualche abbreviazione per facilitarne la lettura) del Paṃsu­dho­vaka­ Sutta (Aṅguttara Nikāya 3.101) un discorso dove il Buddha illustra il processo della meditazione (adhicitta – lett.: la mente/coscienza superiore, o evoluta) paragonandolo al lavoro che è necessario compiere per estrarre e raffinare l’oro, liberandolo dai materiali ai quali si trova mescolato in natura. Come spesso accade nelle similitudini del Buddha tratte dal mondo dei mestieri, il realismo dei dettagli tecnici è funzionale alla comunicazione di un saper fare basato sull’esperienza.

Quindi mi è sembrato utile se non indispensabile affiancare al testo immagini che diano un’idea degli attrezzi e dei gesti di cui si parla e del contesto generale del lavoro (ai tempi del Buddha non esisteva Youtube, quindi ci accontentiamo di approssimazioni contemporanee). L’immaginazione, unita alla conoscenza diretta della vostra mente e all’esperienza della meditazione intensiva, farà il resto! Una cosa però sarà chiara a tutti: non è un lavoretto facile e ‘pulito’, richiede tanto applicazione, perseveranza, ripetizione, tempo, quanto sapienza e conoscenza della ‘materia’. Richiede le mani in pasta ed economia di movimenti, non il distacco del sapere in teoria o uno sperpero inconsulto di energie.

NEL VIDEO QUI SOTTO LA PARTE INTERESSANTE SUL LAVAGGIO COMINCIA AL MINUTO 7.27- spostate il cursore in avanti se non volete vederlo tutto!

Chiunque abbia provato a lasciar decantare i propri pensieri, a staccarsi da un ragionamento a vuoto, una fantasia allettante, un rancore, una preoccupazione, a sottrarsi al sottile dominio di un buon sentimento o all’ansia di ‘praticare’ e di ‘vedere’, sa di che cosa parlo. E chi pensa che samatha abbia a che fare con la ‘calma’ dia un’occhiata al documentario qui sotto: come produrre oro a 24K! Scherzi a parte, l’intensa attività e l’alta temperatura della fucina (l’oro fonde a 1064 gradi!) rendono bene il lavoro psichico non visibile (ma a volte avvertibile), lo stato fluido o caotico del sistema in trasformazione e l’energia sprigionata dal processo.

Due sono le figure implicate nella similitudine: il lavatore o setacciatore (paṃsu­dho­vaka – da pamsu = terriccio, fango, sporcizia) che dà il nome al Discorso; e l’orafo, che subentra una volta che dal processo di filtraggio emerge l’oro grezzo. Nel primo stadio, preliminare, la purificazione mentale è associata all’immagine dell’acqua e del lavare; nel secondo al fuoco e al fondere, che modificano strutturalmente la materia prima. Infine, la mente “duttile, malleabile e splendente” è pronta al lavoro di investigazione che logora i legami e i condizionamenti profondi. Tipicamente, il sutta si conclude ‘in gloria’ con la liberazione dell’arhat, oltre a elencare benefici collaterali del perfezionamento di samatha.

Uno schema analogo del progressivo abbandono dei pensieri distraenti, culminante nella quiete energica e luminosa della mente unificata si trova nel famoso Discorso sui due tipi di pensiero (tradotto su questo blog) che include il passaggio standard sui quattro jhāna. La metafora della raffinazione dell’oro tramite fusione e separazione dai metalli ‘vili’ si ritrova anche in un altro discorso: Aṅguttara Nikāya 5.23 Upak­kilesa­sutta  Qui è esplicito il riferimento ai ‘cinque impedimenti’, qualità o schemi energetici e psicologici che ostruiscono la consapevolezza, offuscano il discernimento e vanno abbandonate insieme alla stimolazione sensoriale perché la mente possa accedere alla meditazione profonda. Potete leggere questa e altre similitudini per i cinque impedimenti cliccando QUI

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Ci sono tre impurità grossolane dell’oro: sabbia sporca, pietrisco e ghiaia. Il setacciatore o il suo apprendista lo mette in un bacile e le lava via sciacquando e risciacquando. Una volta eliminate quelle, restano le impurità mediane: ghiaino e sabbia grossa. Il setacciatore le lava via sciaquando e risciaquando. Una volta eliminate quelle, restano le impurità sottili: sabbia fine e polveri nere. Il setacciatore le lava via sciacquando e risciaquando. Una volta fatto questo, resta solo la polvere d’oro. Allora l’orafo, o il suo apprendista, mette l’oro grezzo nel crogiolo e soffiando lo fonde eliminando le scorie.  th-gold_smith__2230611fFinché non è stato fuso e separato dalle impurità, finché non è raffinato e privo di scorie, l’oro non è duttile, malleabile o splendente. E’ friabile e non si presta a essere lavorato. Ma arriva il momento in cui l’orafo ha fatto quel che doveva fare per liberarlo dalle impurità e l’oro – raffinato e privo di scorie – è duttile, malleabile e splendente. Non è friabile, e si presta a essere lavorato. Allora, qualunque ornamento l’orafo abbia in mente – una cintura, una collana, un paio di orecchini – l’oro servirà al suo scopo.

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Allo stesso modo ci sono tre impurità grossolane del monaco che si dedica alla meditazione: azioni scorrette, parole scorrette, modi di pensare scorretti. Il monaco coscienzioso e intelligente se ne astiene e fa in modo di eliminarle. Una volta abbandonate queste, restano le impurità mediane: pensieri sensuali, pensieri ostili, pensieri violenti. Il monaco coscienzioso e intelligente se ne astiene e fa in modo di eliminarli. Una volta abbandonati questi, restano pensieri sulla famiglia, la patria, la reputazione. Il monaco se ne astiene e fa in modo di eliminarli.

Una volta abbandonati questi, restano solo pensieri connessi alla pratica. La sua concentrazione non è calma o raffinata, non ha raggiunto il perfetto riposo o la convergenza ed è tenuta insieme da un deliberato sforzo di volontà. Ma arriva il momento in cui la mente si stabilizza, si raccoglie e si unifica. La concentrazione è calma e raffinata, raggiunge il perfetto riposo e la convergenza e non è più tenuta insieme da uno sforzo di volontà. Allora, qualunque forma di conoscenza speciale desideri ottenere, potrà farne esperienza quando c’è l’occasione.

[Segue il passo standard sulle 6 abhiñ­ñā o “conoscenze speciali” che possono essere ottenute, per quanto non da tutti i praticanti, come esito del perfezionamento della meditazione di quiete (jhāna): poteri psichici; chiaroveggenza; comprensione della mente degli altri; ricordo delle vite precedenti; comprensione del kamma degli esseri; conoscenza dell’esaurimento delle fermentazioni (āsava) o liberazione]

Se vuole, esaurite le fermentazioni mentali, dimora in quella liberazione del cuore e liberazione data dal discernimento che è priva di fermentazioni, avendola conosciuta e realizzata nel presente. E ne può fare esperienza ogniqualvolta c’è l’occasione.

Una versione dell’intero sutta, in inglese, si può leggere QUI

Da quella pagina (cliccando sul menù in alto a sinistra) si può accedere al testo pāḷi e ad altre letture sull’argomento. Un saggio particolarmente dettagliato su questo Discorso è quello di Piya Tan

Nella sezione AUDIO di questo blog troverete un mio discorso tenuto durante un recente ritiro a Tossignano (Le cinque facoltà) e intitolato Purificare l’Oro.

Ritorno al futuro (2)

17 mercoledì Ago 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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Buddhismo delle origini, cetana sutta, condizionalità, dhammata, esperienza, historically informed performances, metafora, Sutta

Riprendiamo il discorso sul buddhismo delle origini, che abbiamo lasciato con Beethoven e le esecuzioni musicali filologiche o ‘storicamente consapevoli’ (vedi il post precedente Ritorno al futuro). In quel movimento abbiamo colto qualcosa che non ha a che fare con l’idealizzazione del passato o la pretesa di riprodurre un’esperienza, ma col far vivere nel presente le intenzioni e lo spirito del compositore, liberandolo da prassi esecutive e tradizioni interpretative legate ad altre epoche e altri valori. L’intento non è conservare inalterato nel tempo un feticcio musicale, ma esporsi al rischio della crisi e della trasformazione che il contatto con la grande arte comporta; attivare pensiero, emozioni ed energie che interagiscono con il nostro presente e confluiscono nella trama del futuro. Va da sé che il rigore e l’autenticità della ricerca, più il talento specifico e le altre risorse e discipline che i musicisti portano all’impresa sono determinanti per la qualità del risultato, e garantiscono che l’inevitabile soggettività non si traduca in arbitrio, dogmatismo, o mero spirito iconoclasta. Tutto ciò sembra valere anche per chi si accosta oggi agli insegnamenti del Buddha con la dovuta umiltà, ma con la consapevolezza di doversi assumere la responsabilità di come leggere ed eseguire la partitura del Dhamma nella propria vita.

Perché vale la pena di disfare (o quanto meno rilassare) alcuni dei significati e metodi ereditati da scuole e insegnanti buddhisti e rivolgersi alle fonti più antiche? E perché queste dovrebbero essere rilevanti per chi non è uno studioso, ma è interessato alla pratica per motivi personali o esistenziali? In parte, credo che alcune risposte emergano già da quanto detto fin qui, ma forse è utile provare a dire qualcosa in più su questa scelta. Riflettendo su queste domande sono emerse cinque caratteristiche degli insegnamenti più antichi che ritengo si siano perdute o oscurate nelle formulazioni successive. Sono precisamente le caratteristiche che, se ben comprese, ci permettono di trarre utili indicazioni dai sutta pali (o dai loro equivalenti in altre lingue) malgrado il divario socio-culturale e di formularle e applicarle in modi nuovi e personali oggi.

La mia premessa: il Dhamma è ‘ben esposto’ (svākkhāta). È un insegnamento che mira a promuovere e sostenere uno specifico processo evolutivo, così come emerge effettivamente nell’individuo e nel gruppo, generando nel contempo un linguaggio e modelli concettuali per descriverlo e mapparlo. Quindi, non è una religione o un’utopia filosofica. Il suo approccio è essenzialmente maieutico, più che prescrittivo. L’insegnamento (Dhamma) si accompagna a una disciplina (Vinaya), ma la disciplina, o la pratica, non determina o definisce le trasformazioni che sono oggetto del Dhamma. Quindi, non è un antico manuale di tecniche psico-spirituali. Richiede invece lo sforzo creativo di adattare la disciplina alle situazioni della vita reale.

Come uno splendido uccello, il Dhamma va accostato con cura e delicatezza (niente gesti bruschi o rozzi) per non farlo volare via o fargli male. Come un serpente velenoso, non è mite o innocuo. Come ogni organismo vivente, richiede il giusto ambiente per fiorire; pur adattandosi, tenderà a mantenere la sua coerenza interna. Mi interessa il Dhamma bio, che ha frutti irregolari dal gusto inconfondibile. Il Dhamma OGM è forse più elegante o facile da coltivare, ma altrettanto insipido.

Dai testi traspaiono il genio e le realizzazioni di Gotama, ma il Dhamma del buddhismo antico non è né opera di un singolo pensatore (come i Dialoghi di Platone), né la rivelazione di un profeta o un dio (come il Vangelo). Piuttosto, si presenta come il recupero di una sapienza disponibile agli umani (l’“antico sentiero nella foresta”)[1], si sviluppa all’interno di una matrice relazionale (rappresentata al suo primo stadio dal gruppo dei Cinque Bhikkhu più Gotama stesso) e attraversa un lungo processo di trasmissione orale e sperimentazione prima di diventare parola scritta.

I testi antichi celebrano il Tathāgata come modello e come colui che “mostra la via”, ma il Dhamma non appartiene a lui, né fonda la propria validità sull’autorità del maestro,  o perfino sul fatto che ci sia o no un Buddha [2] – un po’ come avviene per Newton e la legge di gravità. Il Dhamma appartiene a chiunque lo faccia vivere nel proprio tempo e luogo, accettando la responsabilità di tenere aperto il sentiero.

Ora i cinque punti. A questo stadio sono semplici affermazioni, un po’ secche, che non mi fermo a dimostrare e neppure a spiegare. Servono come supporto alla riflessione e all’indagine, e spero incoraggino qualcuno che indugia sulla soglia ad avventurarsi in questo mondo affascinante. Le citazioni testuali sono solo alcuni dei luoghi che avevo in mente mentre scrivevo l’articolo.

1) LA FIGURA FRATTALE – Il Dhamma presenta lo stesso disegno globale su scale diverse. Donare (dāna), rinunciare (nekkhamma), la quiete della mente raccolta (samādhi) e l’estinzione della sete (nibbāna) ruotano attorno a una medesima esperienza: lo stress dell’afferrare e aggrapparsi, il sollievo del deporre e lasciar andare. Questa è una metafora fisica, propriocettiva, la cui validità e le cui implicazioni nel regno del cuore e del comportamento vanno intuite e verificate, più che un ideale da raggiungere o uno stato a cui tendere. L’immagine del sentiero è potente, ma non dice tutto. Se presa alla lettera (e in senso lineare) può perfino essere fuorviante. Più che eseguire o ‘accumulare’ una serie di passi verso una meta desiderata che immagini (o ti hanno detto) essere al termine del percorso, si tratta di riconoscere il gusto della felicità e libertà di cui parla Gotama; si tratta di apprezzare il ‘gesto’ da cui scaturisce e procedere da lì, affrontando gli ostacoli via via che si presentano e sviluppando le risorse necessarie a superarli.

2) IL PRINCIPIO DELLA REGOLARITÀ (dhammaniyāmatā) – Il risveglio di Gotama è riproducibile, ma non si produce a volontà. Che i pulcini sguscino dalle uova ben covate è nell’ordine delle cose, non dipende dal desiderio della chioccia.[3] Dunque, l’insegnamento possiede un ordine intrinseco che rispecchia un processo naturale, impersonale, non legato a specificità culturali. “Dato A, è possibile B”; “in assenza di A, non si dà B” (per quanti sforzi tu faccia). Lo ‘sguardo del Dhamma’ coglie schemi e ricorrenze nella dimensione psichica, legami significativi ma ‘deboli’, cioè non obbligati deterministicamente né rigorosamente lineari, nella rete delle condizioni e delle forze che plasmano il flusso dell’esperienza. La prospettiva del ‘processo naturale’ è controbilanciata dalla complementare prospettiva al punto 3.

3) IL PRINCIPIO DELLA COMPETENZA (kusalatā) – Gli insegnamenti sono validi o efficaci quanto lo permettono le reali capacità e risorse delle persone. Dunque non sono universalmente ‘veri’. Tuttavia, le competenze o abilità richieste (tipicamente raggruppate in serie, come le “5 facoltà” o i “7 fattori del risveglio”) si possono sviluppare e temprare associandosi ad “amici ammirevoli” (kalyāṇamitta). Il bene e la maturità spirituale si valutano sul metro di un discernimento o saper fare affine a quello richiesto da un mestiere o un’arte. Le metafore e le similitudini tratte dal mondo del lavoro, che abbondano nei sutta, suggeriscono che, dopotutto, la mente cosciente e la volontà svolgono un ruolo (nel bene o nel male). La prospettiva della ‘competenza’ è bilanciata dalla complementare prospettiva al punto 2.

4) COMPLESSITÀ, NON UNIVOCITÀ – I Discorsi presentano non una dottrina (p.es le “quattro nobili verità”, o la “vacuità”) o un sistema di meditazione (p.es. vipassanā), ma una serie di modelli parzialmente sovrapponibili che affrontano la materia da diverse angolature, o a fasi diverse di sviluppo e coltivazione. Di qui le ambiguità, le incoerenze e le lacune che vanno risolte, per così dire, non teoricamente, ma nel contesto della propria pratica mentre si evolve. Le classificazioni degli abhidhamma, le tradizioni commentariali e le scuole buddhiste cercano di far quadrare tutto secondo chiavi interpretative e definizioni di esperienze contemplative che ambiscono a essere autorevoli, univoche e normative; ma l’effetto è paradossalmente fuorviante. Se il Dhamma è come una zattera, secondo una famosa similitudine,[4] il compito è proprio quello di costruirla assemblando il materiale sparso a disposizione, e verificare se è sufficientemente ben fatta da stare a galla e farti attraversare il fiume. Altra cosa è prendere un traghetto o farsi imprestare una zattera; se si trattasse di questo, forse il Buddha non si sarebbe dilungato a descrivere il lavoro dell’uomo che raccatta fronde e rami, li lega, eccetera.

5) IL LINGUAGGIO POLISEMICO – Gli insegnamenti dei Discorsi fanno ampio uso di concetti esperienziali.[5] In breve, i concetti esperienziali non rappresentano o designano qualcosa (unità, oggetti, realtà, entità logiche, stati, fenomeni, ecc.). Piuttosto, attingono a una riserva condivisa di conoscenza implicita suscitando certe risposte cognitive e affettive. A loro volta, tali significati soggettivamente sentiti orientano l’atteggiamento e l’azione, fra cui le azioni sottili e intime della meditazione. Termini come nibbāna, taṇhā, dukkha, sono metafore basate su osservazioni di vita quotidiana. Sono fatti per essere compresi intuitivamente da qualunque persona interessata e svolgono certe funzioni nel discorso, più che essere sezionati e impartiti come concetti filosofici, categorie psicologiche o dogmi religiosi. Un esempio per tutti è il termine sati, che non può essere ridotto a un’unica funzione mentale (come la ‘nuda attenzione’): se sei svagato o trascurato, significherà “ricorda il tuo compito, o le tue priorità”; se ti fai trascinare o sopraffare dalle tue reazioni e pensieri, implica restare “vigile e protettivo come il guardiano di una città”; se sei irrequieto e iperattivo, vorra dire “bada alle tue vacche stando seduto da un canto” (e via dicendo).[6] La molteplicità dei significati non rende vago il linguaggio o arbitraria l’interpretazione; vi è un fine ordine implicito che si rivela nella consequenzialità e appropriatezza del risultato, quando la risposta o l’azione (anche solo mentale) scaturisce dalla comprensione delle condizioni presenti.

Va da sé che interagire con persone reali che fanno tutto questo e forniscono sia il necessario  contesto etico, sia il beneficio della loro esperienza, è parte integrante del processo di decodifica. I testi antichi implicano non un maestro o una tradizione esegetica, ma un Sangha vivente ed esperto che ti aiuti a capire il Dhamma; ma soprattutto, che capisca te, mentre lo applichi nella tua vita.

[1] Saṃyutta Nikāya 12.65.

[2]Saṃyutta Nikāya 12.20.

[3] L’immagine si trova in Saṃyutta Nikāya 22.101.

[4]  Majjhima Nikāya 22.13.

[5] Per una discussione dei vari ‘tipi’ di concetti e dei termini ‘esperienza’ e ‘implicare’ nel senso in cui li uso qui, rimando a E. T. Gendlin, Experiencing and the Creation of Meaning, 1962, e opere successive. Per una rapida consultazione  http://www.focusing.org/ecmpreface.html

[6] Per queste e altre immagini di sati nei sutta, cfr Bhikkhu Anālayo, Satipatthana: The Direct Path to Realization, Windhorse : Birmingham 2003, pp. 53 segg.

La paura e il manganello

15 mercoledì Giu 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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Attadanda Sutta, Carlo Rovelli, estrema destra, Etica buddhista, meditazione di consapevolezza, Sutta, violenza

La paura nasce dall’armarsi. Guarda la gente che combatte! Ti dirò del turbamento che mi ha scosso. Vedendo gli esseri dibattersi come pesci in secca, reciprocamente ostili, vedendo questo, ebbi paura. Sutta Nipata 4.15

Nel suo intervento sul Corriere della Sera, il noto fisico Carlo Rovelli spiega perchè  “Leggere il Mein Kampf apre gli occhi” (o almeno, li ha aperti a lui), con riferimento alla recente polemica sulla scelta de Il Giornale di allegare al quotidiano un’edizione del famigerato diario. Leggi Carlo Rovelli su corriere.it

Non tutti i lettori sono come Rovelli (ma questa è una constatazione banale) e le ‘provocazioni’ facevano pensare forse fino a trent’anni fa, mentre oggi è più probabile che vadano ad addensare e rimestare una sbobba emotiva indigeribile dove il pensiero si impastoia come un gabbiano nel catrame. Ciò premesso, ho apprezzato il tono sereno, ma moralmente e politicamente non equivoco, con cui Rovelli mette a fuoco la paura e la debolezza come emozioni dominanti e scatenanti della violenza fascista (nelle sue varie edizioni) e ci incoraggia a riconoscerle anche dentro di noi: “Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi.”

Si dirà: non è nuovo, né originale. A cominciare da Psicologia di massa del Fascismo di W. Reich  (1933), innumerevoli sono i tentativi di inquadrare il pensiero totalitario, il razzismo, le ideologie dell’estrema destra, su su fino ai più recenti sviluppi del fondamentalismo armato o di Stato e della violenza xenofoba sondando la sfera delle emozioni, delle patologie individuali e delle dinamiche di gruppo, accanto alle analisi socio-economiche, antropologiche, storiche e politiche. E la paura e l’identità sono ingredienti obbligati del discorso. Ma se analizzare i comportamenti degli altri (perché i diagnosti non sono, in genere, nazisti o xenofobi, anche quando usano il ‘noi’) bastasse a indurre il cambiamento, assisteremmo all’attuale revival dell’estrema destra e di forme di pensiero a essa tradizionalmente associate, in Europa e negli USA? O non avremmo piuttosto messo a punto, collettivamente, nuove e più efficaci strategie o anticorpi per gestire e contenere il fenomeno, invece di reagire con la solita gamma di reazioni  (dalla paura all’esecrazione al paternalismo all’antagonismo al lassismo alla superiorità al menefreghismo all’analisi sociologica … ?). A dire il vero, qualcosa di buono dobbiamo averlo fatto, grazie anche a quelle analisi, perché la situazione è critica, ma non una semplice replica del passato.

Cosa abbiamo fatto che funziona, anche se c’è sempre molto da fare? La democrazia, la libertà, la tutela della persona umana e dei suoi diritti sono valori degni, ma chiedono un sacco di lavoro e di maturità da parte di ciascuno, nel privato dei propri sentimenti non meno che nella sfera dell’agire pubblico. Richiedono dignità e coraggio, vitalità e creatività, moderazione dei bisogni e delle ambizioni individuali e piacere della condivisione e del mutuo sostegno. Richiedono la capacità di tollerare il conflitto, il disordine, la frustrazione, la diversità e l’incertezza senza invocare o agitare il manganello. Ci chiedono di cercare alternative, giorno per giorno, caso per caso, al dominare o essere dominato.

Invece, perdere tempo ed energia accusando o raddrizzando (per lo più nella fantasia) i torti e le follie degli altri o del governo, cedere alla depressione, al vittimismo, al risentimento, all’ansia, all’avidità –  a quelli che nel buddhismo si chiamano ‘inquinanti mentali’ – non aiuta la democrazia e non protegge dai nuovi fascismi. Inseguire o pretendere il piacere, la comodità e la sicurezza in un mondo che non è fatto per darceli ci espone ai ricatti del consumismo e dell’arrivismo sociale e ci rende naturalmente ansiosi, punitivi e intolleranti verso coloro che immaginiamo ce li tolgano o non li proteggano abbastanza. Coltivare un’immagine ideale del mondo o di se stessi o del proprio Paese toglie energia a quel poco di bene autentico che si potrebbe fare, quando non alimenta il fanatismo.

Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti. È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. (Carlo Rovelli)

Tutti abbiamo le nostre ferite e difficoltà e a volte ci sentiamo deboli e timorosi. Forse, la differenza sta in come rispondiamo a quella debolezza e soprattutto in ciò che immaginiamo essere una primaria fonte di pericolo. Chi è attaccato ai beni teme il ladro o la povertà; chi è attaccato al proprio io teme gli altri; chi ama la dignità e la libertà teme di più la paura, e il cedere a pensieri, parole e azioni che imprigionano e degradano. Non sottovaluto le bande neonaziste o i terroristi islamici (e neppure Donald Trump e i giornali di destra). Ma il potenziale nocivo di una mente indisciplinata e un cuore opaco e insofferente nella gran massa di tutti gli altri, la distruttività domestica della gente ‘normale’ e con le idee ‘giuste’ mi preoccupa di più, se non altro per motivi numerici. Una cultura autenticamente democratica esige che sia ciascuno di noi a farsi carico del problema, a usare ogni strumento a disposizione per restare sano, umanamente integro, capace di amore, gioia e curiosità, aiutando gli altri a fare altrettanto. Se ignoriamo il problema o scarichiamo la responsabilità su un’autorità o un potere esterno (accusandolo peraltro di essere o incompetente o corrotto) oppure imputiamo il problema ai cattivi di turno, delegittimiamo il sistema che diciamo di voler difendere, ci condanniamo all’impotenza e al risentimento, ci chiudiamo in un gioco circolare e pericoloso da cui non possiamo uscire se non con la violenza, diretta fuori o dentro di noi, al nostro gruppo o al gruppo ‘alieno’, nella famiglia e nella coppia o nell’arena pubblica e politica.

Nell’Attadaṇḍa Sutta (Sn 4.15) il Buddha capovolge il senso comune per cui armarsi (letteralmente impugnare il bastone, daṇḍa, metonimia per aggressione, punizione o oppressione) è la risposta naturale a una minaccia percepita, un gesto di difesa. Mi armo perché ho paura. Certo. Ma la violenza genera paura. O meglio, secondo la traduzione di A. Olendzki che sfrutta la scarna ambiguità dell’espressione pali, “La paura nasce dall’armarsi”. Come sa chi si occupa di strategia militare, armarsi può essere un deterrente, ma spesso scatena l’aggressione esterna, crea il nemico che si voleva tenere a bada. E quando mi armo, psicologicamente, contro l’altro, giustifico la mia paura e invece di sentirmi più forte ribadisco la mia debolezza e congelo la mia efficacia e la capacità di rispondere in maniera appropriata (cioè il mio reale potere). Che chi impugna il bastone di un potere oppressivo sia condannato ad avere paura è una verità ben illustrata nella nostra cultura, dalla tragedia greca, a Machiavelli, a Shakespeare. Questo Discorso, però, ci colpisce soprattutto perché il Buddha parla in prima persona della paura e del turbamento da lui stesso provati alla vista del conflitto, della competizione e dell’avversione onnipresenti e pervasivi. La scena è desolante: i pesci in “acque basse” o “in secca” evocano il comune destino di morte e insieme l’aridità emotiva in cui si consuma questo vano e pietoso dibattersi. Nei versi successivi dirà di aver cercato inutilmente un luogo sicuro e che non fosse reclamato da qualcuno come proprio.

Ma Gotama, evidentemente, non cerca di vincere la paura impugnando a sua volta il bastone (o il manganello ideologico che presume di raddrizzare ciò che è storto), né si identifica con la parte debole, con il manzoniano “vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”. Al contrario, “depone il bastone e la spada”, come si dice nei sutta per alludere alla compassione; e la paura e l’angoscia lo motivano a ricercare le cause profonde di questo gioco distruttivo, sono l’onda che, abbracciata con silenzioso coraggio e con determinazione, lo trasporta sull’altra sponda, fuori dal gioco, nella libertà:

Il saggio non si considera superiore, pari o inferiore. In pace, senza invidia, non accetta e non disprezza 

https://suttacentral.net/en/snp4.15  Il testo pali e una traduzione inglese alternativa del Sutta

Ritorno al futuro

01 mercoledì Giu 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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Beethoven, Buddhismo delle origini, historically informed performances, Sutta

È compito degli specialisti impegnati nello studio critico e comparativo dei testi canonici delle scuole antiche e del loro contesto storico e sociale definire ambito e significato del “buddhismo delle origini” come progetto accademico e concetto euristico, e argomentare pro o contro l’ “autenticità” dei discorsi del Buddha e la possibilità di ricostruire il pensiero originale del maestro. (*)

Da un punto di vista esperienziale, che è quello che mi riguarda più direttamente, mi chiedo: che cosa facciamo quando diciamo di volerci rivolgere agli insegnamenti originari del Buddha, o ai Sutta, come guida o ispirazione per ‘praticare’, cioè per vivere e pensare oggi, mettendo da parte (o fra parentesi) interpretazioni e commenti posteriori, concrezioni culturali e trasformazioni che costituiscono il ‘buddhismo’ nelle sue molteplici scuole e tradizioni trapiantate in occidente dall’Asia? È perfino possibile una cosa del genere? È necessariamente indizio di una tendenza fondamentalista, di un rifiuto ‘protestante’ di ogni intermediazione nell’approccio alla Parola, di un desiderio di ritorno a una mitica purezza originaria?  Insomma, di che si tratta, in realtà?

Può essere utile, per aiutarci a riflettere, domandarsi cosa facessero e fanno John E. Gardiner  o Roger Norrington ad esempio, con le loro esecuzioni e incisioni ‘storicamente consapevoli’ di musica barocca, classica o romantica. È interessante l’obiezione avanzata a suo tempo dal musicologo Richard Taruskin, secondo cui  è impossibile ricreare l’esperienza sonora di un concerto di due secoli fa (oggi dovremmo dire tre), e le  esecuzioni con strumenti d’epoca rifletterebbero un’estetica o ideologia modernista. Ma la questione va ben oltre il preferire strumenti d’epoca a quelli moderni e riesumare prassi esecutive dimenticate: il desiderio stesso di tornare indietro e più vicini alla volontà e allo spirito dei compositori portò, di fatto, a una rottura con la tradizione interpretativa prevalente (leggi l’articolo di Roger Norrington http://www.theguardian.com/music/2009/mar/14/beethoven )

Facciamo il caso di Beethoven, un altro famoso, geniale e rivoluzionario B. la cui parola suscita ancora fervore religioso e dibattito. Da profano, crederesti che siccome Beethoven, diversamente dal Buddha, è vicino a noi ed è chiaramente autore delle sue opere, suonare ‘autentici’ debba essere incomparabilmente più semplice e relativamente non controverso. Naturalmente non è così. Tanto per cominciare, e lasciando da parte le questioni di filologia musicale che si applicano a tutti i compositori del passato, le partiture originali di Beethoven sono notoriamente così disordinate da essere a volte quasi illegibili; le sue annotazioni spesso insolite o criptiche; senza contare i suoi tempi veloci, tradizionalmente ritenuti ineseguibili e perfino ignorati come ‘errori’ dovuti forse alla sordità del compositore, o a un diverso standard metronomico poi caduto in disuso. E poi, un conto è stabilire il testo di una pagina musicale, un  conto è eseguirla, ossia tradurre il bianco e nero della carta in una complessa e raffinata esperienza multisensoriale, intellettiva ed affettiva che comporta la comunicazione o evocazione, cosciente o implicita, di significati e valori, e che ha luogo non nel privato della nostra ‘testa’, ma nello spazio pubblico di un certo periodo e contesto sociale: e qui le strade divergono, anche radicalmente.

Il suono grezzo e il passo serrato di alcune letture più recenti, che fanno come dice l’Autore e come facevano ai Suoi tempi, sembra poco dignitoso, superficiale (e via dicendo) a chi pensa che Karajan e Beethoven siano tutt’uno. Altri direbbero: Finalmente! Ora sì! Questo è fantastico, questo è nuovo (anche se, in un certo senso, più antico). Le esecuzioni musicali ‘filologiche’ sono ormai comuni e ampiamente ben accolte; a un certo punto furono anche un po’ di moda, come sembra stiano diventando i Sutta fra gli insegnanti di meditazione. Eppure, basta scorrere i commenti ai video su You Tube o le recensioni degli acquirenti relativi ad alcune di queste esecuzioni o incisioni, per trovare più di una traccia dello sdegno, dello scherno, perfino degli insulti rivolti dalla critica e dal pubblico ai direttori d’orchestra ‘non ortodossi’ e a chi ne apprezza le interpretazioni.

Indubbiamente, è difficile non reagire quando qualcosa che conosci e ami viene sfigurato, o piegato alle opinioni e ai pregiudizi personali (sic). Per interesse, o per semplice ignoranza e cattivo gusto. Perché è questa la sensazione. Naturalmente, si può essere più educati, o così raffinati musicalmente da apprezzare la diversità e l’innovazione e limitarsi a valutazioni ‘tecniche’ non partigiane. Ma qualcosa, dentro, continua a ribellarsi: semplicemente, questo non è Beethoven. E viceversa. Quanti di noi che hanno apprezzato la vitalità e la chiarezza dell’Eroica di Gardiner si riprenderebbero il sound elefantiaco e il passo lento di diretttori più ‘tradizionali’ e orchestre ‘moderne’? E quando Gardiner ci ha mostrato come i canti della Rivoluzione Francese trovarono la via delle partiture di Beethoven, giurammo di aver sempre udito in quel ritmo scandito che si affretta: la-li-ber-té, la-li-ber-té…  Certo che c’era, solo che adesso la ricerca storica ci dà il diritto di udirla.

Il fatto è: vogliamo udire certe cose. Vogliamo dimenticare quello che i nazisti hanno fatto a Beethoven, vogliamo farlo nostro, vogliamo vederlo sorridere orgoglioso ai ragazzi di El Sistema mentre Gustavo Dudamel, uno di loro assurto a fama mondiale, scatena quella massa d’energia come dono di fiducia e riscatto per gli emarginati, vogliamo accogliere nella nostra epoca ansiosa e dissonante le sue ultime opere incomprese dai contemporanei, dar loro un terreno perché ci parlino e crescano con noi.

Quindi, sì, si tratta di noi e dei nostri bisogni e valori. E non si tratta affatto del passato, ma del presente, e del nostro futuro. Certo, non si può asportare chirurgicamente, per dir così, l’India antica dal pensiero di Gotama, più di quanto si possa asportare la forma sonata dalla musica di Beethoven. Ma, d’altro canto, non si esegue Beethoven come se fosse Haydn o Mozart.  E sai che comprese a fondo quella forma e andò oltre, quindi non ti stupisci (oppure sì, ma ti fa piacere) che certi pezzetti ricordino Schomberg o Bartok o perfino il jazz. E un grande musicista potrebbe farlo sembrare qualcosa di mai udito prima (ricordo lacrime di meraviglia e ammirazione ascoltando per la prima volta Missa Solemnis condotta da Norrington). I paradossi logici e le inversioni temporali sono la norma nel regno del citta (la mente-cuore), con i suoi sentimenti e significati.

Dunque, siamo nel regno del puramente  soggettivo, e non resta che concludere “a ciascuno il suo Beethoven” (o il suo Buddha)? Non direi. (Ma continueremo in un prossimo post … intanto godetevi il film sull’Eroica di Beethoven nell’esecuzione dell’Orchestre Revolutionaire et Romantique condotta da sir Gardiner)

*L’espressione italiana “buddhismo antico”, che sarebbe il logico corrispettivo dell’inglese Early Buddhism, comprende generalmente sia il periodo pre-conciliare della trasmissione orale, sia le scuole buddhiste posteriori cosiddette ‘antiche’ (per intenderci, quelle che i polemisti del mahayana battezzarono come ‘piccolo veicolo’ e che concorsero alla redazione dei canoni buddhisti a noi pervenuti); inoltre, a livello divulgativo è spesso associata alle scuole theravada tutt’ora esistenti, largamente basate sulle elaborazioni filosofiche dell’abhidhamma e sull’autorità della tradizione commentariale srilankese. Per evitare confusioni, e con riferimento alla corrente ricerca sugli strati più antichi degli insegnamenti del Buddha e l’organizzazione della sua prima comunità, scelgo l’espressione buddhismo delle origini, anche se controversa (ma forse non più controversa del concetto di ‘cristianesimo delle origini’, a noi più familiare). Sull’autenticità dei Discorsi (in pali e altre lingue) come testimonianza affidabile dell’insegnamento del Buddha rimando i non specialisti a Ajahn Brahmali & Bhante Sujato, The Authenticity of the Early Buddhist Texts

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