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Il blog di Letizia Baglioni

Archivi Mensili: giugno 2016

Ritiro estivo a Tarzo Treviso

20 lunedì Giu 2016

Posted by Letizia Baglioni in Pratica buddhista

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Tag

anapanasati, consapevolezza del respiro, meditazione di consapevolezza, retta concentrazione

Tranquillita’ e Visione profonda

Ritiro di meditazione a Tarzo (TV)

Ashram Solare, 30 luglio-7 agosto

INFO  tarzo2016

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Sono aperte le iscrizioni per questo ritiro residenziale. Per facilitare l’organizzazione chiediamo di perfezionare l’iscrizione entro il 20 luglio scrivendo a inforitiri@gmail.com

L’accento è sulla coltivazione della presenza mentale (satipaṭṭhāna) e su come si rafforza e raffina nel processo che porta alla concentrazione o unificazione del cuore (sammā samādhi).

In questo approccio samatha e vipassanā (quiete e investigazione o visione profonda) sono integrate e complementari fin dai primi passi della coltivazione mentale, e applicate in modo organico tenendo presente gli insegnamenti del Buddha degli strati canonici più antichi (sutta) e in particolare quelli sulla pratica della consapevolezza dell’inspirare ed espirare (ānāpānasati).

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Sarà utile per i partecipanti leggere questi due libretti di introduzione alla consapevolezza del corpo e del respiro tratti da insegnamenti di Ajahn Sucitto

anapanasati_1

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La paura e il manganello

15 mercoledì Giu 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

≈ 6 commenti

Tag

Attadanda Sutta, Carlo Rovelli, estrema destra, Etica buddhista, meditazione di consapevolezza, Sutta, violenza

La paura nasce dall’armarsi. Guarda la gente che combatte! Ti dirò del turbamento che mi ha scosso. Vedendo gli esseri dibattersi come pesci in secca, reciprocamente ostili, vedendo questo, ebbi paura. Sutta Nipata 4.15

Nel suo intervento sul Corriere della Sera, il noto fisico Carlo Rovelli spiega perchè  “Leggere il Mein Kampf apre gli occhi” (o almeno, li ha aperti a lui), con riferimento alla recente polemica sulla scelta de Il Giornale di allegare al quotidiano un’edizione del famigerato diario. Leggi Carlo Rovelli su corriere.it

Non tutti i lettori sono come Rovelli (ma questa è una constatazione banale) e le ‘provocazioni’ facevano pensare forse fino a trent’anni fa, mentre oggi è più probabile che vadano ad addensare e rimestare una sbobba emotiva indigeribile dove il pensiero si impastoia come un gabbiano nel catrame. Ciò premesso, ho apprezzato il tono sereno, ma moralmente e politicamente non equivoco, con cui Rovelli mette a fuoco la paura e la debolezza come emozioni dominanti e scatenanti della violenza fascista (nelle sue varie edizioni) e ci incoraggia a riconoscerle anche dentro di noi: “Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi.”

Si dirà: non è nuovo, né originale. A cominciare da Psicologia di massa del Fascismo di W. Reich  (1933), innumerevoli sono i tentativi di inquadrare il pensiero totalitario, il razzismo, le ideologie dell’estrema destra, su su fino ai più recenti sviluppi del fondamentalismo armato o di Stato e della violenza xenofoba sondando la sfera delle emozioni, delle patologie individuali e delle dinamiche di gruppo, accanto alle analisi socio-economiche, antropologiche, storiche e politiche. E la paura e l’identità sono ingredienti obbligati del discorso. Ma se analizzare i comportamenti degli altri (perché i diagnosti non sono, in genere, nazisti o xenofobi, anche quando usano il ‘noi’) bastasse a indurre il cambiamento, assisteremmo all’attuale revival dell’estrema destra e di forme di pensiero a essa tradizionalmente associate, in Europa e negli USA? O non avremmo piuttosto messo a punto, collettivamente, nuove e più efficaci strategie o anticorpi per gestire e contenere il fenomeno, invece di reagire con la solita gamma di reazioni  (dalla paura all’esecrazione al paternalismo all’antagonismo al lassismo alla superiorità al menefreghismo all’analisi sociologica … ?). A dire il vero, qualcosa di buono dobbiamo averlo fatto, grazie anche a quelle analisi, perché la situazione è critica, ma non una semplice replica del passato.

Cosa abbiamo fatto che funziona, anche se c’è sempre molto da fare? La democrazia, la libertà, la tutela della persona umana e dei suoi diritti sono valori degni, ma chiedono un sacco di lavoro e di maturità da parte di ciascuno, nel privato dei propri sentimenti non meno che nella sfera dell’agire pubblico. Richiedono dignità e coraggio, vitalità e creatività, moderazione dei bisogni e delle ambizioni individuali e piacere della condivisione e del mutuo sostegno. Richiedono la capacità di tollerare il conflitto, il disordine, la frustrazione, la diversità e l’incertezza senza invocare o agitare il manganello. Ci chiedono di cercare alternative, giorno per giorno, caso per caso, al dominare o essere dominato.

Invece, perdere tempo ed energia accusando o raddrizzando (per lo più nella fantasia) i torti e le follie degli altri o del governo, cedere alla depressione, al vittimismo, al risentimento, all’ansia, all’avidità –  a quelli che nel buddhismo si chiamano ‘inquinanti mentali’ – non aiuta la democrazia e non protegge dai nuovi fascismi. Inseguire o pretendere il piacere, la comodità e la sicurezza in un mondo che non è fatto per darceli ci espone ai ricatti del consumismo e dell’arrivismo sociale e ci rende naturalmente ansiosi, punitivi e intolleranti verso coloro che immaginiamo ce li tolgano o non li proteggano abbastanza. Coltivare un’immagine ideale del mondo o di se stessi o del proprio Paese toglie energia a quel poco di bene autentico che si potrebbe fare, quando non alimenta il fanatismo.

Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti. È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. (Carlo Rovelli)

Tutti abbiamo le nostre ferite e difficoltà e a volte ci sentiamo deboli e timorosi. Forse, la differenza sta in come rispondiamo a quella debolezza e soprattutto in ciò che immaginiamo essere una primaria fonte di pericolo. Chi è attaccato ai beni teme il ladro o la povertà; chi è attaccato al proprio io teme gli altri; chi ama la dignità e la libertà teme di più la paura, e il cedere a pensieri, parole e azioni che imprigionano e degradano. Non sottovaluto le bande neonaziste o i terroristi islamici (e neppure Donald Trump e i giornali di destra). Ma il potenziale nocivo di una mente indisciplinata e un cuore opaco e insofferente nella gran massa di tutti gli altri, la distruttività domestica della gente ‘normale’ e con le idee ‘giuste’ mi preoccupa di più, se non altro per motivi numerici. Una cultura autenticamente democratica esige che sia ciascuno di noi a farsi carico del problema, a usare ogni strumento a disposizione per restare sano, umanamente integro, capace di amore, gioia e curiosità, aiutando gli altri a fare altrettanto. Se ignoriamo il problema o scarichiamo la responsabilità su un’autorità o un potere esterno (accusandolo peraltro di essere o incompetente o corrotto) oppure imputiamo il problema ai cattivi di turno, delegittimiamo il sistema che diciamo di voler difendere, ci condanniamo all’impotenza e al risentimento, ci chiudiamo in un gioco circolare e pericoloso da cui non possiamo uscire se non con la violenza, diretta fuori o dentro di noi, al nostro gruppo o al gruppo ‘alieno’, nella famiglia e nella coppia o nell’arena pubblica e politica.

Nell’Attadaṇḍa Sutta (Sn 4.15) il Buddha capovolge il senso comune per cui armarsi (letteralmente impugnare il bastone, daṇḍa, metonimia per aggressione, punizione o oppressione) è la risposta naturale a una minaccia percepita, un gesto di difesa. Mi armo perché ho paura. Certo. Ma la violenza genera paura. O meglio, secondo la traduzione di A. Olendzki che sfrutta la scarna ambiguità dell’espressione pali, “La paura nasce dall’armarsi”. Come sa chi si occupa di strategia militare, armarsi può essere un deterrente, ma spesso scatena l’aggressione esterna, crea il nemico che si voleva tenere a bada. E quando mi armo, psicologicamente, contro l’altro, giustifico la mia paura e invece di sentirmi più forte ribadisco la mia debolezza e congelo la mia efficacia e la capacità di rispondere in maniera appropriata (cioè il mio reale potere). Che chi impugna il bastone di un potere oppressivo sia condannato ad avere paura è una verità ben illustrata nella nostra cultura, dalla tragedia greca, a Machiavelli, a Shakespeare. Questo Discorso, però, ci colpisce soprattutto perché il Buddha parla in prima persona della paura e del turbamento da lui stesso provati alla vista del conflitto, della competizione e dell’avversione onnipresenti e pervasivi. La scena è desolante: i pesci in “acque basse” o “in secca” evocano il comune destino di morte e insieme l’aridità emotiva in cui si consuma questo vano e pietoso dibattersi. Nei versi successivi dirà di aver cercato inutilmente un luogo sicuro e che non fosse reclamato da qualcuno come proprio.

Ma Gotama, evidentemente, non cerca di vincere la paura impugnando a sua volta il bastone (o il manganello ideologico che presume di raddrizzare ciò che è storto), né si identifica con la parte debole, con il manzoniano “vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”. Al contrario, “depone il bastone e la spada”, come si dice nei sutta per alludere alla compassione; e la paura e l’angoscia lo motivano a ricercare le cause profonde di questo gioco distruttivo, sono l’onda che, abbracciata con silenzioso coraggio e con determinazione, lo trasporta sull’altra sponda, fuori dal gioco, nella libertà:

Il saggio non si considera superiore, pari o inferiore. In pace, senza invidia, non accetta e non disprezza 

https://suttacentral.net/en/snp4.15  Il testo pali e una traduzione inglese alternativa del Sutta

Ritorno al futuro

01 mercoledì Giu 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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Tag

Beethoven, Buddhismo delle origini, historically informed performances, Sutta

È compito degli specialisti impegnati nello studio critico e comparativo dei testi canonici delle scuole antiche e del loro contesto storico e sociale definire ambito e significato del “buddhismo delle origini” come progetto accademico e concetto euristico, e argomentare pro o contro l’ “autenticità” dei discorsi del Buddha e la possibilità di ricostruire il pensiero originale del maestro. (*)

Da un punto di vista esperienziale, che è quello che mi riguarda più direttamente, mi chiedo: che cosa facciamo quando diciamo di volerci rivolgere agli insegnamenti originari del Buddha, o ai Sutta, come guida o ispirazione per ‘praticare’, cioè per vivere e pensare oggi, mettendo da parte (o fra parentesi) interpretazioni e commenti posteriori, concrezioni culturali e trasformazioni che costituiscono il ‘buddhismo’ nelle sue molteplici scuole e tradizioni trapiantate in occidente dall’Asia? È perfino possibile una cosa del genere? È necessariamente indizio di una tendenza fondamentalista, di un rifiuto ‘protestante’ di ogni intermediazione nell’approccio alla Parola, di un desiderio di ritorno a una mitica purezza originaria?  Insomma, di che si tratta, in realtà?

Può essere utile, per aiutarci a riflettere, domandarsi cosa facessero e fanno John E. Gardiner  o Roger Norrington ad esempio, con le loro esecuzioni e incisioni ‘storicamente consapevoli’ di musica barocca, classica o romantica. È interessante l’obiezione avanzata a suo tempo dal musicologo Richard Taruskin, secondo cui  è impossibile ricreare l’esperienza sonora di un concerto di due secoli fa (oggi dovremmo dire tre), e le  esecuzioni con strumenti d’epoca rifletterebbero un’estetica o ideologia modernista. Ma la questione va ben oltre il preferire strumenti d’epoca a quelli moderni e riesumare prassi esecutive dimenticate: il desiderio stesso di tornare indietro e più vicini alla volontà e allo spirito dei compositori portò, di fatto, a una rottura con la tradizione interpretativa prevalente (leggi l’articolo di Roger Norrington http://www.theguardian.com/music/2009/mar/14/beethoven )

Facciamo il caso di Beethoven, un altro famoso, geniale e rivoluzionario B. la cui parola suscita ancora fervore religioso e dibattito. Da profano, crederesti che siccome Beethoven, diversamente dal Buddha, è vicino a noi ed è chiaramente autore delle sue opere, suonare ‘autentici’ debba essere incomparabilmente più semplice e relativamente non controverso. Naturalmente non è così. Tanto per cominciare, e lasciando da parte le questioni di filologia musicale che si applicano a tutti i compositori del passato, le partiture originali di Beethoven sono notoriamente così disordinate da essere a volte quasi illegibili; le sue annotazioni spesso insolite o criptiche; senza contare i suoi tempi veloci, tradizionalmente ritenuti ineseguibili e perfino ignorati come ‘errori’ dovuti forse alla sordità del compositore, o a un diverso standard metronomico poi caduto in disuso. E poi, un conto è stabilire il testo di una pagina musicale, un  conto è eseguirla, ossia tradurre il bianco e nero della carta in una complessa e raffinata esperienza multisensoriale, intellettiva ed affettiva che comporta la comunicazione o evocazione, cosciente o implicita, di significati e valori, e che ha luogo non nel privato della nostra ‘testa’, ma nello spazio pubblico di un certo periodo e contesto sociale: e qui le strade divergono, anche radicalmente.

Il suono grezzo e il passo serrato di alcune letture più recenti, che fanno come dice l’Autore e come facevano ai Suoi tempi, sembra poco dignitoso, superficiale (e via dicendo) a chi pensa che Karajan e Beethoven siano tutt’uno. Altri direbbero: Finalmente! Ora sì! Questo è fantastico, questo è nuovo (anche se, in un certo senso, più antico). Le esecuzioni musicali ‘filologiche’ sono ormai comuni e ampiamente ben accolte; a un certo punto furono anche un po’ di moda, come sembra stiano diventando i Sutta fra gli insegnanti di meditazione. Eppure, basta scorrere i commenti ai video su You Tube o le recensioni degli acquirenti relativi ad alcune di queste esecuzioni o incisioni, per trovare più di una traccia dello sdegno, dello scherno, perfino degli insulti rivolti dalla critica e dal pubblico ai direttori d’orchestra ‘non ortodossi’ e a chi ne apprezza le interpretazioni.

Indubbiamente, è difficile non reagire quando qualcosa che conosci e ami viene sfigurato, o piegato alle opinioni e ai pregiudizi personali (sic). Per interesse, o per semplice ignoranza e cattivo gusto. Perché è questa la sensazione. Naturalmente, si può essere più educati, o così raffinati musicalmente da apprezzare la diversità e l’innovazione e limitarsi a valutazioni ‘tecniche’ non partigiane. Ma qualcosa, dentro, continua a ribellarsi: semplicemente, questo non è Beethoven. E viceversa. Quanti di noi che hanno apprezzato la vitalità e la chiarezza dell’Eroica di Gardiner si riprenderebbero il sound elefantiaco e il passo lento di diretttori più ‘tradizionali’ e orchestre ‘moderne’? E quando Gardiner ci ha mostrato come i canti della Rivoluzione Francese trovarono la via delle partiture di Beethoven, giurammo di aver sempre udito in quel ritmo scandito che si affretta: la-li-ber-té, la-li-ber-té…  Certo che c’era, solo che adesso la ricerca storica ci dà il diritto di udirla.

Il fatto è: vogliamo udire certe cose. Vogliamo dimenticare quello che i nazisti hanno fatto a Beethoven, vogliamo farlo nostro, vogliamo vederlo sorridere orgoglioso ai ragazzi di El Sistema mentre Gustavo Dudamel, uno di loro assurto a fama mondiale, scatena quella massa d’energia come dono di fiducia e riscatto per gli emarginati, vogliamo accogliere nella nostra epoca ansiosa e dissonante le sue ultime opere incomprese dai contemporanei, dar loro un terreno perché ci parlino e crescano con noi.

Quindi, sì, si tratta di noi e dei nostri bisogni e valori. E non si tratta affatto del passato, ma del presente, e del nostro futuro. Certo, non si può asportare chirurgicamente, per dir così, l’India antica dal pensiero di Gotama, più di quanto si possa asportare la forma sonata dalla musica di Beethoven. Ma, d’altro canto, non si esegue Beethoven come se fosse Haydn o Mozart.  E sai che comprese a fondo quella forma e andò oltre, quindi non ti stupisci (oppure sì, ma ti fa piacere) che certi pezzetti ricordino Schomberg o Bartok o perfino il jazz. E un grande musicista potrebbe farlo sembrare qualcosa di mai udito prima (ricordo lacrime di meraviglia e ammirazione ascoltando per la prima volta Missa Solemnis condotta da Norrington). I paradossi logici e le inversioni temporali sono la norma nel regno del citta (la mente-cuore), con i suoi sentimenti e significati.

Dunque, siamo nel regno del puramente  soggettivo, e non resta che concludere “a ciascuno il suo Beethoven” (o il suo Buddha)? Non direi. (Ma continueremo in un prossimo post … intanto godetevi il film sull’Eroica di Beethoven nell’esecuzione dell’Orchestre Revolutionaire et Romantique condotta da sir Gardiner)

*L’espressione italiana “buddhismo antico”, che sarebbe il logico corrispettivo dell’inglese Early Buddhism, comprende generalmente sia il periodo pre-conciliare della trasmissione orale, sia le scuole buddhiste posteriori cosiddette ‘antiche’ (per intenderci, quelle che i polemisti del mahayana battezzarono come ‘piccolo veicolo’ e che concorsero alla redazione dei canoni buddhisti a noi pervenuti); inoltre, a livello divulgativo è spesso associata alle scuole theravada tutt’ora esistenti, largamente basate sulle elaborazioni filosofiche dell’abhidhamma e sull’autorità della tradizione commentariale srilankese. Per evitare confusioni, e con riferimento alla corrente ricerca sugli strati più antichi degli insegnamenti del Buddha e l’organizzazione della sua prima comunità, scelgo l’espressione buddhismo delle origini, anche se controversa (ma forse non più controversa del concetto di ‘cristianesimo delle origini’, a noi più familiare). Sull’autenticità dei Discorsi (in pali e altre lingue) come testimonianza affidabile dell’insegnamento del Buddha rimando i non specialisti a Ajahn Brahmali & Bhante Sujato, The Authenticity of the Early Buddhist Texts

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