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Il blog di Letizia Baglioni

Archivi tag: esperienza

Percezione e discernimento

07 lunedì Ott 2019

Posted by Letizia Baglioni in Percorsi tematici

≈ 26 commenti

Tag

discernimento, esperienza, impermanenza, khandha, Laboratorio Mestre, percezione, satipatthana, vipassana

Questo post presenta una selezione di materiali tratti dal Laboratorio di studio e pratica del Dhamma tenutosi a Venezia Mestre ott.-nov. 2019: Percezione e discernimento nella pratica di visione profonda (vipassanā). Gli interventi dei partecipanti sono stati conservati nell’area dei COMMENTI, dove trovate anche traduzioni di articoli e testi.

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Immagina un miraggio che luccica a mezzogiorno nella stagione calda … allo stesso modo … quale sostanza potrebbe esservi in una percezione? (Saṃyutta Nikāya 22.95)

Esplora la natura e il ruolo di saññā – la ‘percezione’ come processo di costruzione di segni e significati – nel contesto dei 5 khandhā (gruppi o aggregati) e nel percorso di sviluppo mentale volto a indebolire e infine neutralizzare le radici delle intenzioni e reazioni non salutari (avidità, avversione e illusione). Nella prospettiva dei Discorsi le distorsioni percettive di base della mente non evoluta vengono decostruite con l’applicazione di ‘percezioni correttive’ e dell’investigazione.

AUDIO

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2019/10/percezione-le-categorie-di-vipassana.mp3

Percezione – le categorie di vipassanā (6 basi sensoriali, 5 gruppi, nome-forma e coscienza)

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2019/10/percezione-2.mp3

Percezione – concetto e significato affettivo

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2019/10/percezione-3-nimitta.mp3

Percezione – nimitta (segno), reattività e custodia dei sensi

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2019/10/percezione-pubblicita-1.mp3

Percezione – pubblicità, propaganda: la natura ingannevole di saññā

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2019/10/percezione-papanca1.mp3

Percezione – papañca (proliferazione concettuale)

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2019/10/percezione-papanca-2.mp3

Percezione – papañca (2) Madhupiṇḍika Sutta (MN 18)

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2019/10/percezione-discernimento-e-liberta.mp3

Percezione – l’istruzione a Bahiya

Sulle ‘percezioni correttive’ o percezioni da coltivare (in particolare la percezione dell’impermanenza o incostanza) vedi TESTI e APPUNTI e vai al Percorso tematico La percezione dell’impermanenza

TESTI

Un grumo di schiuma Pheṇa­piṇ­ḍūpama­ sutta SN 22.95

La percezione dell’impermanenza Aniccasaññā-sutta SN 22.102

Madhupiṇḍika Sutta (MN 18)  Papanca o proliferazione concettuale

Girimānanda Sutta (AN 10.60) (10 percezioni da coltivare)

Dutiyasaññāsutta (AN 7.49) (7 percezioni da coltivare) vedi APPUNTI 5 e 6

APPROFONDIMENTI

Anālayo, The Bāhiya Instruction and Bare Awareness

Anālayo, In the Seen Just the Seen: Mindfulness and the Construction of Experience 

APPUNTI

1) Nome e forma (NAMA RUPA)

2) Inversioni percettive (saññā vipallāsā)  Aṅguttara Nikāya 4.49 (trad. Olendzki)

3) Custodia dei sensi (citazioni da sutta)   pamada      sei animali

4) Anālayo, Nimitta

5) 10 Percezioni del GIRIMĀNANDA SUTTA cfr Anālayo mindfullyfacingdiseasedeath pp. 208 sgg.  (in particolare: la percezione dell’impermanenza pp.214-216 vedi trad. it. nella sezione COMMENTI)

6) Percezioni AN7.49 AN10.60 + estratto in italiano

Ritorno al futuro (2)

17 mercoledì Ago 2016

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

≈ 5 commenti

Tag

Buddhismo delle origini, cetana sutta, condizionalità, dhammata, esperienza, historically informed performances, metafora, Sutta

Riprendiamo il discorso sul buddhismo delle origini, che abbiamo lasciato con Beethoven e le esecuzioni musicali filologiche o ‘storicamente consapevoli’ (vedi il post precedente Ritorno al futuro). In quel movimento abbiamo colto qualcosa che non ha a che fare con l’idealizzazione del passato o la pretesa di riprodurre un’esperienza, ma col far vivere nel presente le intenzioni e lo spirito del compositore, liberandolo da prassi esecutive e tradizioni interpretative legate ad altre epoche e altri valori. L’intento non è conservare inalterato nel tempo un feticcio musicale, ma esporsi al rischio della crisi e della trasformazione che il contatto con la grande arte comporta; attivare pensiero, emozioni ed energie che interagiscono con il nostro presente e confluiscono nella trama del futuro. Va da sé che il rigore e l’autenticità della ricerca, più il talento specifico e le altre risorse e discipline che i musicisti portano all’impresa sono determinanti per la qualità del risultato, e garantiscono che l’inevitabile soggettività non si traduca in arbitrio, dogmatismo, o mero spirito iconoclasta. Tutto ciò sembra valere anche per chi si accosta oggi agli insegnamenti del Buddha con la dovuta umiltà, ma con la consapevolezza di doversi assumere la responsabilità di come leggere ed eseguire la partitura del Dhamma nella propria vita.

Perché vale la pena di disfare (o quanto meno rilassare) alcuni dei significati e metodi ereditati da scuole e insegnanti buddhisti e rivolgersi alle fonti più antiche? E perché queste dovrebbero essere rilevanti per chi non è uno studioso, ma è interessato alla pratica per motivi personali o esistenziali? In parte, credo che alcune risposte emergano già da quanto detto fin qui, ma forse è utile provare a dire qualcosa in più su questa scelta. Riflettendo su queste domande sono emerse cinque caratteristiche degli insegnamenti più antichi che ritengo si siano perdute o oscurate nelle formulazioni successive. Sono precisamente le caratteristiche che, se ben comprese, ci permettono di trarre utili indicazioni dai sutta pali (o dai loro equivalenti in altre lingue) malgrado il divario socio-culturale e di formularle e applicarle in modi nuovi e personali oggi.

La mia premessa: il Dhamma è ‘ben esposto’ (svākkhāta). È un insegnamento che mira a promuovere e sostenere uno specifico processo evolutivo, così come emerge effettivamente nell’individuo e nel gruppo, generando nel contempo un linguaggio e modelli concettuali per descriverlo e mapparlo. Quindi, non è una religione o un’utopia filosofica. Il suo approccio è essenzialmente maieutico, più che prescrittivo. L’insegnamento (Dhamma) si accompagna a una disciplina (Vinaya), ma la disciplina, o la pratica, non determina o definisce le trasformazioni che sono oggetto del Dhamma. Quindi, non è un antico manuale di tecniche psico-spirituali. Richiede invece lo sforzo creativo di adattare la disciplina alle situazioni della vita reale.

Come uno splendido uccello, il Dhamma va accostato con cura e delicatezza (niente gesti bruschi o rozzi) per non farlo volare via o fargli male. Come un serpente velenoso, non è mite o innocuo. Come ogni organismo vivente, richiede il giusto ambiente per fiorire; pur adattandosi, tenderà a mantenere la sua coerenza interna. Mi interessa il Dhamma bio, che ha frutti irregolari dal gusto inconfondibile. Il Dhamma OGM è forse più elegante o facile da coltivare, ma altrettanto insipido.

Dai testi traspaiono il genio e le realizzazioni di Gotama, ma il Dhamma del buddhismo antico non è né opera di un singolo pensatore (come i Dialoghi di Platone), né la rivelazione di un profeta o un dio (come il Vangelo). Piuttosto, si presenta come il recupero di una sapienza disponibile agli umani (l’“antico sentiero nella foresta”)[1], si sviluppa all’interno di una matrice relazionale (rappresentata al suo primo stadio dal gruppo dei Cinque Bhikkhu più Gotama stesso) e attraversa un lungo processo di trasmissione orale e sperimentazione prima di diventare parola scritta.

I testi antichi celebrano il Tathāgata come modello e come colui che “mostra la via”, ma il Dhamma non appartiene a lui, né fonda la propria validità sull’autorità del maestro,  o perfino sul fatto che ci sia o no un Buddha [2] – un po’ come avviene per Newton e la legge di gravità. Il Dhamma appartiene a chiunque lo faccia vivere nel proprio tempo e luogo, accettando la responsabilità di tenere aperto il sentiero.

Ora i cinque punti. A questo stadio sono semplici affermazioni, un po’ secche, che non mi fermo a dimostrare e neppure a spiegare. Servono come supporto alla riflessione e all’indagine, e spero incoraggino qualcuno che indugia sulla soglia ad avventurarsi in questo mondo affascinante. Le citazioni testuali sono solo alcuni dei luoghi che avevo in mente mentre scrivevo l’articolo.

1) LA FIGURA FRATTALE – Il Dhamma presenta lo stesso disegno globale su scale diverse. Donare (dāna), rinunciare (nekkhamma), la quiete della mente raccolta (samādhi) e l’estinzione della sete (nibbāna) ruotano attorno a una medesima esperienza: lo stress dell’afferrare e aggrapparsi, il sollievo del deporre e lasciar andare. Questa è una metafora fisica, propriocettiva, la cui validità e le cui implicazioni nel regno del cuore e del comportamento vanno intuite e verificate, più che un ideale da raggiungere o uno stato a cui tendere. L’immagine del sentiero è potente, ma non dice tutto. Se presa alla lettera (e in senso lineare) può perfino essere fuorviante. Più che eseguire o ‘accumulare’ una serie di passi verso una meta desiderata che immagini (o ti hanno detto) essere al termine del percorso, si tratta di riconoscere il gusto della felicità e libertà di cui parla Gotama; si tratta di apprezzare il ‘gesto’ da cui scaturisce e procedere da lì, affrontando gli ostacoli via via che si presentano e sviluppando le risorse necessarie a superarli.

2) IL PRINCIPIO DELLA REGOLARITÀ (dhammaniyāmatā) – Il risveglio di Gotama è riproducibile, ma non si produce a volontà. Che i pulcini sguscino dalle uova ben covate è nell’ordine delle cose, non dipende dal desiderio della chioccia.[3] Dunque, l’insegnamento possiede un ordine intrinseco che rispecchia un processo naturale, impersonale, non legato a specificità culturali. “Dato A, è possibile B”; “in assenza di A, non si dà B” (per quanti sforzi tu faccia). Lo ‘sguardo del Dhamma’ coglie schemi e ricorrenze nella dimensione psichica, legami significativi ma ‘deboli’, cioè non obbligati deterministicamente né rigorosamente lineari, nella rete delle condizioni e delle forze che plasmano il flusso dell’esperienza. La prospettiva del ‘processo naturale’ è controbilanciata dalla complementare prospettiva al punto 3.

3) IL PRINCIPIO DELLA COMPETENZA (kusalatā) – Gli insegnamenti sono validi o efficaci quanto lo permettono le reali capacità e risorse delle persone. Dunque non sono universalmente ‘veri’. Tuttavia, le competenze o abilità richieste (tipicamente raggruppate in serie, come le “5 facoltà” o i “7 fattori del risveglio”) si possono sviluppare e temprare associandosi ad “amici ammirevoli” (kalyāṇamitta). Il bene e la maturità spirituale si valutano sul metro di un discernimento o saper fare affine a quello richiesto da un mestiere o un’arte. Le metafore e le similitudini tratte dal mondo del lavoro, che abbondano nei sutta, suggeriscono che, dopotutto, la mente cosciente e la volontà svolgono un ruolo (nel bene o nel male). La prospettiva della ‘competenza’ è bilanciata dalla complementare prospettiva al punto 2.

4) COMPLESSITÀ, NON UNIVOCITÀ – I Discorsi presentano non una dottrina (p.es le “quattro nobili verità”, o la “vacuità”) o un sistema di meditazione (p.es. vipassanā), ma una serie di modelli parzialmente sovrapponibili che affrontano la materia da diverse angolature, o a fasi diverse di sviluppo e coltivazione. Di qui le ambiguità, le incoerenze e le lacune che vanno risolte, per così dire, non teoricamente, ma nel contesto della propria pratica mentre si evolve. Le classificazioni degli abhidhamma, le tradizioni commentariali e le scuole buddhiste cercano di far quadrare tutto secondo chiavi interpretative e definizioni di esperienze contemplative che ambiscono a essere autorevoli, univoche e normative; ma l’effetto è paradossalmente fuorviante. Se il Dhamma è come una zattera, secondo una famosa similitudine,[4] il compito è proprio quello di costruirla assemblando il materiale sparso a disposizione, e verificare se è sufficientemente ben fatta da stare a galla e farti attraversare il fiume. Altra cosa è prendere un traghetto o farsi imprestare una zattera; se si trattasse di questo, forse il Buddha non si sarebbe dilungato a descrivere il lavoro dell’uomo che raccatta fronde e rami, li lega, eccetera.

5) IL LINGUAGGIO POLISEMICO – Gli insegnamenti dei Discorsi fanno ampio uso di concetti esperienziali.[5] In breve, i concetti esperienziali non rappresentano o designano qualcosa (unità, oggetti, realtà, entità logiche, stati, fenomeni, ecc.). Piuttosto, attingono a una riserva condivisa di conoscenza implicita suscitando certe risposte cognitive e affettive. A loro volta, tali significati soggettivamente sentiti orientano l’atteggiamento e l’azione, fra cui le azioni sottili e intime della meditazione. Termini come nibbāna, taṇhā, dukkha, sono metafore basate su osservazioni di vita quotidiana. Sono fatti per essere compresi intuitivamente da qualunque persona interessata e svolgono certe funzioni nel discorso, più che essere sezionati e impartiti come concetti filosofici, categorie psicologiche o dogmi religiosi. Un esempio per tutti è il termine sati, che non può essere ridotto a un’unica funzione mentale (come la ‘nuda attenzione’): se sei svagato o trascurato, significherà “ricorda il tuo compito, o le tue priorità”; se ti fai trascinare o sopraffare dalle tue reazioni e pensieri, implica restare “vigile e protettivo come il guardiano di una città”; se sei irrequieto e iperattivo, vorra dire “bada alle tue vacche stando seduto da un canto” (e via dicendo).[6] La molteplicità dei significati non rende vago il linguaggio o arbitraria l’interpretazione; vi è un fine ordine implicito che si rivela nella consequenzialità e appropriatezza del risultato, quando la risposta o l’azione (anche solo mentale) scaturisce dalla comprensione delle condizioni presenti.

Va da sé che interagire con persone reali che fanno tutto questo e forniscono sia il necessario  contesto etico, sia il beneficio della loro esperienza, è parte integrante del processo di decodifica. I testi antichi implicano non un maestro o una tradizione esegetica, ma un Sangha vivente ed esperto che ti aiuti a capire il Dhamma; ma soprattutto, che capisca te, mentre lo applichi nella tua vita.

[1] Saṃyutta Nikāya 12.65.

[2]Saṃyutta Nikāya 12.20.

[3] L’immagine si trova in Saṃyutta Nikāya 22.101.

[4]  Majjhima Nikāya 22.13.

[5] Per una discussione dei vari ‘tipi’ di concetti e dei termini ‘esperienza’ e ‘implicare’ nel senso in cui li uso qui, rimando a E. T. Gendlin, Experiencing and the Creation of Meaning, 1962, e opere successive. Per una rapida consultazione  http://www.focusing.org/ecmpreface.html

[6] Per queste e altre immagini di sati nei sutta, cfr Bhikkhu Anālayo, Satipatthana: The Direct Path to Realization, Windhorse : Birmingham 2003, pp. 53 segg.

Apprendere dall’esperienza

28 venerdì Nov 2014

Posted by Letizia Baglioni in Senza categoria

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Tag

esperienza, Sutta

Penso che in un ritiro di meditazione ci siano almeno due livelli di apprendimento. Nel primo si dà importanza al fatto che c’è un insegnamento del Buddha, ci sono certi schemi, certe mappe, un certo linguaggio: è un po’ come apprendere una nuova lingua e credo sia molto utile e vantaggioso, è un buon addestramento anche solo riflettere su questi insegnamenti, soprattutto nella forma in cui il Buddha li ha dati originariamente, o comunque nel modo in cui sono confezionati nei Discorsi antichi. Perché, a differenza di altri modi suggestivi, strutturati o standardizzati di proporre queste pratiche, lì è tutto molto scarno ma non univoco, a volte un po’ complicato, o denso, come può esserlo un modello scientifico o un assioma matematico. A questo si associano l’uso abbondante di metafore e similitudini, le vignette gustose o ricche di spunti storici, sociologici e psicologici di certi dialoghi, che sollecitano una diversa lettura, l’attivazione del pensiero analogico, sognante, associativo. In ogni caso non troviamo il linguaggio del dogma, o la grandeur della visione metafisica, o la mistica della realizzazione istantanea, paradossale e non categorizzabile, cui ci ha abituato il buddhismo posteriore.

Ma in genere, se si leggono i Sutta li si trova un po’ noiosi, e molto ripetitivi. Il Discorso sulla consapevolezza dell’inspirare ed espirare (Anapanasati Sutta) ad esempio, non dice nulla di particolarmente ispirante: non parla d’amore, creatività, interconnessione, sembra la voce di un navigatore satellitare. Però, proprio perché è una mappa da usare in cammino, si serve di concetti che puntano verso qualcosa, ci dicono: c’è quest’area, c’è questo aspetto del processo. Si può usare un termine pāli, con le sue molteplici risonanze semantiche, per cominciare a fare mente locale, a orientarci verso qualcosa che sappiamo implicitamente o che dobbiamo scoprire o ritrovare. Per esempio sati (presenza mentale o consapevolezza). Posso adottare una definizione di sati o di consapevolezza, al punto di credere di aver capito cos’è o dare per scontato che tutti intendano la stessa cosa in tutti i contesti (come accade oggi per il termine “mindfulness”). O insistere su una traduzione rispetto alle altre. Ma non mi porta da nessuna parte.

Il modo in cui mi piace usare questi insegnamenti e i relativi termini chiave – perchè credo siano nati da quel livello e con quello scopo – è invitare il secondo livello dell’apprendimento, che ha valore esistenziale e affettivo e che appassiona, ossia l’apprendere dall’esperienza. In un ritiro, se siamo fortunati e con un pizzico di abilità, creiamo certe condizioni che incoraggiano e facilitano, per ciascuno di noi, certi tentativi. Uno può dire “vengo a meditare”, ma cosa significa? Io non credo che questo tipo di meditazione abbia come scopo imparare a meditare, perché in fondo cosa facciamo seduti qui in silenzio? Se uno entrasse e non sapesse niente vedrebbe uomini e donne di diversa età, fermi (chi ondeggia, chi si gratta la testa, ogni tanto un sospiro, alcune facce estatiche, alcune facce ingrugnate): bah, che fanno? Se ci pensate è una cosa abbastanza stravagante. E ciascuno di noi, ricevute certe istruzioni, certe idee, poi va sul suo cuscino, sul suo sentiero per la camminata… sì, è vero che in questo spazio possiamo essere più o meno fisicamente vicini, ma ognuno è solo. Cioè, non posso sentire il prurito del piede tuo, vivere la tua gioia o provare dolore al posto tuo, risolvere la tua preoccupazione. Anzi, se sono onesta, devo anche dirmi che non sono del tutto certa di capirti: lascio sempre un certo margine di mistero e di dubbio che quello che tu descrivi corrisponda a quello che penso o sento. Questo modo di stare in ritiro, così nudo, potenzialmente noioso, sensorialmente e intellettualmente poco gratificante, esposti a difficoltà cui è difficile sottrarsi… a volte viene da pensare, ma che sto a fare qui? A volte è solo un lamento, un’espressione di disappunto o di dubbio. Però se uno prende sul serio la domanda, comincia ad aprirsi a ciò che avviene nel momento presente, sentire, riflettere …

Quindi apprendere dall’esperienza ha a che vedere con la disponibilità a entrare in un processo in cui sei rimandato costantemente a ciò che è. E cosa impari? Impari cosa vuol dire essere un essere umano, impari la ricchezza e la sofferenza che comporta, i modi in cui si può amplificarla, crearla oppure non crearla, impari che cosa è veramente di valore e cosa non ha vero valore, impari come ti metti nei guai, e come non metterti nei guai. E tante altre cose che hanno a che vedere con una crescita organica che avviene. Per ciascuno, se vuole, c’è l’occasione per cominciare a mettere le mani in pasta, per cominciare a entrare nel mare dell’esperienza diretta con questa indicazione del Buddha: ci sono delle intenzioni o inclinazioni della mente/cuore… notalo, sentilo, puoi verificare che un certo tipo di intenzione sortisce certi effetti, mentre quest’altro tipo ne sortisce altri. C’è il senso della prigionia e c’è la possibilità di sentirsi liberi senza modificare deliberatamente le condizioni esterne, eliminare o acquisire alcunché. Non è un dogma, non te lo devi neanche ricordare, e infatti te lo dimentichi. Gli insegnanti dicono centinaia di parole, alcune sembrano di grande ispirazione e poi appena volti l’angolo ti sembrano una scemenza, o te le dimentichi, non valgono più niente… quando sei lì, nella tua dimensione, e incontri quella particolare esperienza, quella particolare cosa. Nessuno ti tira fuori dal tuo imbarazzo.

Apprendere dall’esperienza è anche disponibilità a procedere per prova ed errore, come quando si va in montagna e si deve tornare sui propri passi e cercare un’altra strada… si va con una mappa, ma le mappe bisogna saperle leggere, e non sempre quello che c’è scritto corrisponde allo stato attuale del territorio e delle proprie gambe. E poi, sta per piovere, si fa buio, sei agitato, e quindi leggi male, non capisci, non sai… Insomma, c’è un’avventura attorno a questo, che non ha a che vedere con “vado a fare quattro passi in campagna”. La mia speranza è che, almeno per qualcuno, la dimensione del ritiro aiuti a scoprire modi, prospettive, gesti che riguardano come stare con l’esperienza emotiva perché diventi fonte di nuova comprensione ed efficacia, piuttosto che fonte di oscuramento e ripetitività. Il fatto di trovarsi in una certa situazione, parlare di meditazione, fare certe cose seduti su un cuscino, non toglie che ognuno di noi e in momenti diversi possa viverlo con attitudini profondamente diverse, perché apprendere dall’esperienza non è automatico. Credo ci siano alcune condizioni senza le quali non può avvenire. Vorrei provare a menzionarne qualcuna.

Mi pare che nei confronti della meditazione, come anche della propria vita, ci si possa porre come un fruitore o un utente. Valutare le cose nel senso di cosa mi è piaciuto e cosa non mi è piaciuto. Sono un utente, ho dei bisogni, quelli forniscono un servizio, vado, e quindi valuto in base a quanto quell’istituzione (istituzione in senso lato, il centro di ritiro, il buddhismo, quel che volete) soddisfa le mie esigenze. Certamente andando alla ASL ha senso, però quando si viene con questo atteggiamento alla pratica (e mi accorgo che si può venire con questo atteggiamento alla pratica) per un po’ funziona, soprattutto se il contesto lo incoraggia. Ma se il contesto non lo incoraggia, se c’è un po’ di incertezza, cose che non vanno alla perfezione… dopo un po’ non regge, c’è frustrazione, c’è noia. Non è tanto piacevole in certi momenti, c’è confusione. Se invece cambi il punto di vista, nel senso della disponibilità ad apprendere dall’esperienza, vedi che da fruitore o utente diventi il protagonista, diventi l’attore. Vai a bottega e sei pronto a sporcarti di colori o di polvere di marmo. E sei disposto a vedere che i risultati dell’opera delle tue mani, a volte, sono da buttare.

Un punto fondamentale è che ci dev’essere se non altro l’inclinazione a un’onestà di fondo, e dobbiamo poter amare questa onestà di fondo come un valore superiore alla nostra reputazione (di fronte a noi stessi o agli altri). In altri termini, se la paura di perdere la faccia è più forte del piacere e del valore dell’onestà non si può apprendere dall’esperienza. Sarà molto difficile, frustrante e doloroso. E ci si muove poco. Cioè, non posso permettermi il lusso di fare un passo fuori dall’ordinario, fuori da quello che già so, perché potrei farlo male! E se lo faccio male l’idea che ho di me trema. Se invece ho questa inclinazione all’onestà (e non so perché ce l’ho, me la ritrovo) e sono contenta di scoprire come stanno le cose, questo mi aiuta anche a non prendermela troppo quando quello che scopro non è esaltante. Ché un conto è vedere o immaginare la statua già fatta; ma prendere il martello pesa, fa venire i calli, sono disposto a sentire che c’è anche questo aspetto, che magari ho bisogno di rafforzare i polsi (faccio per dire): la piccola cosa.

Un’altra condizione è che il gusto o l’interesse per l’ignoto bilanci (se non superi) il bisogno e il desiderio di comfort, di piacere, e in questo includo la comodità psicologica, il sentimento di sicurezza, di agio. Cercare il piacere psicologico e fisico è naturale, è un istinto di preservazione, ma se questo bisogno prevale, e di gran lunga, sul gusto, interesse, eccitazione, quasi, per l’ignoto, ti muovi poco. Ti muovi poco, quindi apprendere dall’esperienza comincia a diventare difficile, se non impossibile.

Un altro elemento è la disponibilità ad ammettere “così non vado da nessuna parte” e cambiare strada, senza che questo costituisca un problema, ma capire che questo è l’apprendimento. C’è amore per l’applicarsi a un compito (così non funziona, così può funzionare). Puoi rimanere fermo in mezzo a un dilemma, non sapendo che pesci prendere per un po’. Sì, comporta frustrazione, comporta dubbio, però non è una sconfitta. Ti piace farlo. Così puoi apprendere dall’esperienza. Viceversa, cosa succede se predomina (e dobbiamo essere molto onesti nel notare se e in che misura predomina) l’aspetto del “sì, sì, mi muovo per andare, però mi devi dire come andarci, anzi mi devi perfino dire se vale la pena arrivarci; anzi, siccome non so bene neppure io dove voglio arrivare, fammelo piacere, fammi pensare che sia molto bello arrivare là, così io, anche senza muovermi, me lo immagino, mi sembra quasi quasi di esserci”. E’ il motivo per cui a volte fa piacere leggere il libro di ispirazione spirituale; poi però, quando vai tu a fare quella cosa, pensi “ma era così bello quando lo diceva il Dalai Lama…” come se in un certo senso tu, la tua esperienza, la tua avventura, quello che succede a te, non abbia la stessa importanza o lo stesso valore di quello che succede al Dalai Lama. Allora predomina l’ideale, piuttosto che il “posso sbagliare, posso perdermi, posso rimanere fermo non sapendo che fare, ma non mi lascio dire da un altro dove devo arrivare, non mi lascio dire da un altro che cosa c’è lì… c’è la mappa del Buddha, c’è il suo incoraggiamento, però voglio andare a vedere; e come? mah, devo vedere, devo camminare”.

Un altro elemento che rinvia alla possibilità di tollerare l’ignoto riguarda l’autorità e il rapporto che intratteniamo con l’autorità. Perché sia possible apprendere dall’esperienza è necessario trovare un rapporto con l’autorità o la tradizione che non sia di completa sfida o rifiuto (faccio da me, non ho bisogno di nessuno, seguo le mie inclinazioni, i miei pensieri, nessuno mi dica quello che devo fare), quindi così problematico o intenso da fissarmi nell’atteggiamento del ribelle, dell’antagonista, o in uno stolido evitamento dell’intera questione. Un rapporto che, d’altro canto, non dia per scontato l’altro atteggiamento, altrettanto diffuso negli ambienti spirituali (e non solo, ovviamente) ossia amare l’autorità, cercarla, e anzi pretendere, soprattutto inconsciamente, che l’autorità ti tolga dai guai. Noi non ce lo diciamo, perché dircelo ad alta voce ci farebbe sentire infantili; ma in certi momenti di frustrazione, di irritazione o di scoraggiamento, se potessimo veramente ascoltare da dove viene quel sentimento, a volte è come una stizza, “perché nessuno viene a togliermi questo, io non voglio questo dolore, non voglio questa confusione, perché nessuno viene e me la toglie? perché non vengono mamma e papà a tirarmi fuori dai guai, perché l’insegnante non mi dice…”. Un tema caro ad Ajahn Sumedho,(1) un maestro che ha condiviso in modo molto chiaro e onesto quelli che sono i momenti del cammino e anche i fraintendimenti del cammino, e ce li ha posti davanti in modo che ognuno si potesse riconoscere, interrogare. Dobbiamo riconoscere quando aspettiamo l’autorità e ci arrabbiamo e ci sentiamo frustrati perché è come se dicessimo “io sono impotente, come faccio io a prendermi cura dei miei stati mentali, dei miei stati fisici, ho male alle gambe, che devo fare?”.

Nella posizione di dipendenza neghiamo di avere sufficienti risorse, da quella del rifiuto neghiamo la relazione; è un viaggio piuttosto solipsistico dove è ok solo quello che è già nel tuo bagaglio di abitudini e opinioni. Ma non puoi apprendere dall’esperienza seguendo le tue opinioni. Ecco perché è utile avere un insegnamento e una disciplina che aiutino a sospendere per un attimo le opinioni. Cosa accade, effettivamente, mentre siedo qui con l’intenzione di rimanere presente mentre inspiro ed espiro con un atteggiamento di benevola e calma attenzione? Ma sospendere le opinioni fa venire la tremarella. Allora subito voglio l’opinione dell’autorità. E’ come se dicessi: “va bene, metterò da parte la mia opinione, ma dammene subito un’altra da raccontarmi… ah, ok, sono qui per liberarmi dall’attaccamento, non so bene cosa sia questo attaccamento, però ieri lo sapevo, o mi è parso di capirlo quando me lo dicevano”. Ma ora, cos’è?

Dunque sembra che una condizione per apprendere dall’esperienza sia che posso sospendere un’opinione o una spiegazione senza correre a prenderne un’altra di qualcuno sopra di me, o che io sento sopra di me. Ma neanche ripudio qualunque idea o strumento, prendo un’ipotesi, o prendo qualcosa che, gradualmente, mi accorgo che è utile a navigare il terreno in cui la mia aspirazione mi porta. Il Buddha paragonava il suo insegnamento a una zattera. Ma prima di essere un mezzo per attraversare l’acqua (e non, come ricorderete, da trascinarsi dietro sulla terra ferma), una zattera è qualcosa che va assemblato, con tronchi opportunamente selezionati, tagliati a misura, messi insieme e saldamente legati (devo questa intuizione a Stephen Batchelor).(2) La zattera non è bell’e fatta, il Buddha non ha detto: “Eccovi la zattera”. Seguendo il modo molto potente in cui pensava e si esprimeva (o almeno, come le scritture lo rappresentano), immagino che avrebbe detto più o meno: “Ci sono tronchi, ci sono corde, ci sono mani e braccia, ci sono accette, eccetera, si può costruire una zattera”. Ogni pezzo del suo insegnamento, ogni elemento della pratica, va lavorato e assemblato in un certo modo. Allora, apprendere dall’esperienza, in questo campo, è capire che il lavoro è quello.

Quindi ci vuole tempo, ci vuole applicazione, ci vuole soprattutto sentire dentro la turbolenza, il giramento di testa o il vuoto piatto di quando ti senti investito per la prima volta da una cosa come “i dodici anelli dell’origine condizionata – paticca samuppada” (ma che è?). Ma poi cominci a vederli a uno a uno, ascolti le varie interpretazioni, cerchi di capire il principio fondamentale, te lo misuri addosso (come mi sta?): ha senso o non ha senso per me, per ora lo devo mettere da parte? Ma non lo metto da parte perché “tanto a me non serve”. No, lo metto da parte perché per ora non so dove metterlo, e continuo a camminare. Accetto di continuare a camminare con questa continua e strana sensazione di incompiuto, di sospeso, di poco chiaro in cui però ho lì, negli angoli, certe cose. E mi aspetto che un giorno possa dire “ah ah, ecco il pezzo del puzzle che mancava…”.

Con questo ho introdotto un’altra delle condizioni necessarie: il campo aperto, dal punto di vista temporale. Che non significa “eeeh, l’è lunga…”. Ma è il campo aperto. Apprendere è ora, ma so che ho di fronte un tempo x. Non so quanto. Mi dò il tempo. Il che non significa che aspetto a crescere fra dieci anni o la prossima vita, piuttosto che andare a un ritiro di dieci giorni aspettandomi di vedere i risultati in dieci giorni; o che mi dico “beh, so di essere un misero mortale, quindi, forse, seppure avrò dei risultati…”. No, mi interessa il lavoro. Passo dall’atteggiamento del fruitore o dell’utente all’atteggiamento dell’artigiano, dell’apprendista artigiano. Quindi, questo lavoro fa parte della mia vita, è una cosa che faccio perché ho scelto di farla, perché ha senso per me, me ne assumo la responsabilità, e tutti i pezzetti ancora in sospeso, invece di essere un problema, sono parte dell’esperienza di apprendimento.

Poi c’è un ultimo aspetto, che è delicato e non si può ottenere con la volontà. A volte c’è, a volte non c’è, quindi si tratta di essere onesti nel sentire quali sono le proprie possibilità. Apprendere dall’esperienza implica la possibilità di stare soli con se stessi; devo poter essere in grado di tollerare ciò che sono, senza un eccessivo bisogno di conferma o di sostegno da parte degli altri. Posso semplicemente stare, sentire cose a volte piacevoli, a volte spiacevoli, avere i pensieri e le emozioni che ho, senza necessariamente comunicarli, esprimerli, senza cercare il giudizio o il confronto con gli altri. Per quanto sembri banale, non lo è affatto. Vi siete accorti, a volte, come è difficile essere soli? (Il Buddha direbbe che non siamo soli finché c’è “il secondo” della sete, il desiderio compulsivo di consumare, diventare, eliminare qualcosa). Le mie follie e incongruenze: devo poterle non dico conoscere, ma almeno rappacificarmi con la loro innegabile presenza. Nei Discorsi ci sono vari passi in cui si puntualizza che meditare da soli, poter essere soli, non è cosa da poco e non è cosa da principiante.(3) Richiede la capacità di riconoscere e superare con coraggio certe paure e desideri di fondo, è sintomo di maturità.
Quindi, apprendere dall’esperienza ha a che vedere anche con un interesse a misurarsi con questo, imparare a essere soli. La solitudine non la vedo come lo spettro da scongiurare, per cui la mia pratica, il mio cammino, si ferma laddove non mi sento sostenuto e circondato da altri benevoli. Provo ad arrischiarmi. So che devo maturare per essere solo, però mi interessa. Si tratta in gran parte di scelte inconsce. Uno non “decide” di apprendere dall’esperienza. Ma, nel tempo, può riconoscere quali sono le condizioni che lo permettono, e sostenerle con gli strumenti appropriati.

Da un discorso tenuto a Pian dei Ciliegi (PC), luglio 2014

Note

1) Vedi p.es. “Non cercare risposte, non chiedere favori”, in: Achaan Sumedho, Consapevolezza intuitiva, Astrolabio, Roma 2005.

2) Majjhima Nikāya 22.13 (Alagaddūpama Sutta) A essere precisi, la zattera è fatta non di tronchi ma di “erba, fuscelli, rami e foglie” raccolti e assemblati da un uomo che “compie la traversata fino all’altra sponda compiendo uno sforzo con le mani e i piedi”. http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/mn/mn.022.than.html

3) P. es. Majjhima Nikāya 4 (Bhāyabherava Sutta) http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/mn/mn.004.than.html

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