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Il blog di Letizia Baglioni

Archivi tag: samadhi

Le cinque facoltà spirituali

12 lunedì Ott 2020

Posted by Letizia Baglioni in Percorsi tematici

≈ 41 commenti

Tag

5 indriya, discernimento, facoltà spirituali, retta concentrazione, retto sforzo, samadhi, samma vayama, sati

Buddha

Ci sono cinque facoltà che, sostenute e coltivate, si fondono nel senza-morte, tendono al senza-morte, terminano nel senza-morte. … Sono le facoltà della fede, dell’energia, della presenza mentale, della concentrazione e del discernimento .  Saṃyutta Nikāya 48.57

Audio (dal Lab online: 5 indriya ott. nov. 2020)

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2020/10/la-facolta-della-fede.mp3

La facoltà della fede

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2020/10/la-facolta-dellenergia.mp3

La facoltà dell’energia

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2020/10/la-facolta-della-presenza-mentale.mp3

La facoltà della presenza mentale

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2020/10/la-facolta-del-samadhi.mp3

La facoltà del samadhi

https://letiziabaglionidotcom.files.wordpress.com/2020/10/la-facolta-del-discernimento.mp3

La facoltà del discernimento

Appunti e citazioni

5 Indriya

Appamada   (diligenza, cura o consapevolezza)

Saddha (fede)

Viriya (retto sforzo)

Sati (presenza mentale)

Discernimento

VEDI ANCHE nell’area dei COMMENTI la discussione fra i partecipanti al Lab online: 5 indriya ott.-nov. 2020

  • SUL TEMA DEI CINQUE INDRIYA ASCOLTA ANCHE GLI AUDIO DEL RITIRO TARZO 2016

 

I quattro jhana

27 giovedì Apr 2017

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

≈ 9 commenti

Tag

jhana, meditazione di consapevolezza, metafora, retta concentrazione, samadhi, Sutta, Sāmañ­ña­phala­sutta

Riprendiamo la traduzione della sezione centrale del Sāmañ­ña­phala­sutta, il Discorso sui frutti della vita contemplativa (Dīgha Nikāya 2) VEDI ARTICOLO PRECEDENTE.

Superati i cinque impedimenti – qualità non salutari che ostruiscono la consapevolezza e indeboliscono il discernimento – il campo dell’esperienza si semplifica e si chiarifica, la mente si acquieta e la meditazione decolla dando luogo al processo che nell’ottuplice sentiero del Buddha va sotto il nome di retta concentrazione o sammā samādhi.

Le vivide e puntualissime similitudini che descrivono i quattro jhāna (termine frequentemente ma impropriamente tradotto con ‘assorbimento’ o addirittura ‘trance’) si ritrovano altrove nei Nikāya (cfr. p. es. Anguttara Nikāya 5.28 e Majjhima Nikaya 119) e completano il passo standard che definisce ciascuno dei quattro stati contemplativi in termini di graduale ‘alleggerimento’ e pacificazione.

[Primo jhāna ] 

“Separato dagli oggetti dei sensi, separato da qualità non salutari, entra e rimane nel primo jhāna: gioia e piacere della solitudine associati all’applicazione e all’esame. Pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e il piacere della solitudine, così che non vi è parte del suo intero corpo che non sia soffuso di gioia e piacere.

“Grande re, immagina un abile addetto ai bagni, o il suo apprendista, che versa polvere di sapone in un bacile, la spruzza d’acqua e la impasta per formare una palla, così che la palla di sapone sia intrisa d’umidità, pervasa e soffusa d’umidità dentro e fuori senza però gocciolare.  Allo stesso modo, il bhikkhu pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e il piacere della solitudine, così che non vi è parte del suo intero corpo che non sia soffuso di gioia e piacere. Questo, gran re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti.

[Secondo jhāna ]

“Inoltre, grande re, venendo meno l’applicazione e l’esame entra e rimane nel secondo jhāna: fiducia interiore e concentrazione mentale senza applicazione né esame, gioia e piacere dell’unificazione. Pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e il piacere dell’unificazione, così che non vi è parte del suo intero corpo che non sia soffusa di quella gioia e piacere.

“Grande re, immagina un lago profondo con una sorgente interna, che non riceve immissioni da est, ovest, nord o sud e non è alimentato da piogge stagionali. Ma una corrente d’acqua fresca che sgorga dal basso pervade, permea, satura e soffonde tutto il lago, così che non vi è parte di esso che non sia soffuso d’acqua fresca. Allo stesso modo, il bhikkhu pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con la gioia e piacere dell’unificazione, così che non vi è parte del suo corpo che non sia soffusa di tale gioia e piacere. Anche questo, grande re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti.

[Terzo jhāna ]

“Inoltre, grande re, con lo svanire della gioia resta equanime, consapevole e chiaramente cosciente, fisicamente sensibile al piacere; entra e rimane nel terzo jhāna di cui i nobili dicono: “Ha una piacevole dimora chi è equanime e consapevole”.

“Grande re, immagina uno stagno in cui vi siano loti azzurri, bianchi o rossi nati nell’acqua, cresciuti nell’acqua, che non si ergono al di sopra dell’acqua ma fioriscono immersi nell’acqua. Dalla punta delle radici sarebbero pervasi, permeati, saturi e soffusi d’acqua fresca, così che non vi sarebbe parte di quei loti non permeata d’acqua fresca.  Allo stesso modo, il bhikkhu pervade, permea, satura e soffonde il proprio corpo con quel piacere senza esultanza, così che non vi è parte del suo corpo che non sia soffusa di quel piacere senza esultanza. Anche questo, grande re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti.

[Quarto jhāna]

 “Inoltre, grande re, abbandonati piacere e dolore e tramontate già letizia e mestizia, entra e rimane nel quarto jhāna: né piacevole né spiacevole, presenza mentale purificata dall’equanimità. Siede soffondendo il proprio corpo con una mente pura e limpida, così che non vi è parte del suo corpo che non sia soffusa di una mente pura e limpida.

“Grande re, immagina qualcuno che siede avvolto dalla testa ai piedi in un panno bianco, così che non vi è parte del suo corpo che non sia sfiorata dal panno bianco. Allo stesso modo, il bhikkhu siede soffondendo il proprio corpo con una mente pura e limpida, così che non vi è parte del suo corpo che non è soffusa da una mente pura e limpida. Anche questo, grande re, è un frutto visibile della vita contemplativa, più eccellente e sublime dei precedenti”.

NOTE ALLA TRADUZIONE

“Grande Re”:  Si tratta di Ajātasattu re di Kosala, che vuole capire quali siano i vantaggi e i frutti concreti della vita di rinuncia condotta dal Buddha e dai suoi seguaci rispetto a quelli che si ottengono dedicandosi a mestieri e attività ordinari. Alla figura di questo re parricida e ai suoi rapporti con Gotama Stephen Batchelor dedica interessanti pagine in Confessione di un ateo buddhista (Astrolabio – Ubaldini ed)

Viveka: Qui lo rendo con ‘solitudine’, ma il participio passato del verbo (vivicca) con ‘separato’. Il primo jhana nasce da viveka sia nel senso dell’essere fisicamente appartati e separati dagli stimoli sensoriali (kaya viveka), sia nel senso della solitudine del cuore (citta viveka), felicemente separato da pensieri e qualità non salutari. Un luogo protetto, esternamente e internamente.

“Applicazione ed esame” rendono qui vitakka & vicāra. In alternativa: attenzione applicata e sostenuta. I due termini indicano generalmente un’attività mentale riflessiva o discorsiva e si traducono con ‘pensiero’ (vedi ad esempio il Discorso sui Due tipi di pensiero) Qui però l’espressione si riferisce a una semplice forma di lucida attenzione pre-verbale, un movimento mentale che rende il primo jhāna meno stabile e compatto del secondo.

“Unificazione” (samādhi) e “concentrazione mentale” (cetaso ekodibhāvaṃ) segnano appunto il secondo jhāna, che il Buddha definisce “nobile silenzio”. Qui il controllo e la volontà, ancora attivi nella fase precedente, si placano.  

“Gioia e piacere”: pīti sukhaṃ  La prima è un’inclinazione dell’intenzione, il secondo una tonalità affettiva. La qualità dell’esperienza complessiva varia notevolmente (secondo uno schema riconoscibile) con l’approfondirsi del processo, dal primo al terzo jhana. Varia inoltre a seconda della maturità del meditante. Alternative per pīti: Godimento, gusto, estasi, trasporto, esultanza. Non importa trovare la traduzione perfetta, ma comprendere che i due termini non indicano UNO stato mentale specifico ma additano una direzione: il meditante impara a restare interiormente fermo, rilassato, abbandonato e distaccato mentre l’esperienza psicofisica si intensifica, sciogliendo la naturale reattività e avidità collegata alla sensazione piacevole. La sensazione dunque si modula e infine si placa attraverso il disincanto e il lasciar andare, quindi in dipendenza dall’atteggiamento mentale che tende all’equanimità. Sapere come far emergere, espandere, e poi rifluire la pervasiva gioia della concentrazione è il cuore dell’arte di samatha, che è essenzialmente un gesto di regolazione e intelligenza emotiva.

“Piacere e dolore”: La coppia di opposti sukha – dukkha sta per l’intero spettro della polarità fondamentale (agio – disagio).

“Letizia e mestizia”: La coppia somanassa – domanassa implica qualcosa di più chiaramente psicologico, una valutazione dell’esperienza. Nell’istruzione del Buddha su come stabilire la presenza mentale (satipatthana) è centrale abbandonare domanassa (lo scontento o scoraggiamento nei confronti del mondo) come pure il suo opposto (esaltazione, eccitazione, aspettative, desideri). Qui è un chiaro riferimento alla precedente pratica di consapevolezza, come presupposto della pacificazione (samatha).

“Il proprio corpo” imameva kāyaṃ. Occorre notare che il termine kāya ha il significato letterale di aggregato, collezione, insieme, gruppo, congerie, raccolta ecc. (cfr la nostra accezione di corpus, ad esempio l’insieme o collezione di testi letterari). Per estensione designa anche (ma non solo) il corpo anatomico. Permeare “il corpo” con la gioia il piacere e la pura equanimità della meditazione è chiaramente associato alla pratica di satipatthana nel Discorso sulla consapevolezza del corpo (Kāyaga­tā­sati­sutta, MN 119), e la presenza della formula dei 4 jhāna e di queste stesse similitudini in analogo contesto nei paralleli cinesi attesta l’antichità di questa istruzione accanto alle altre modalità o prospettive da cui contemplare il corpo (come un insieme di organi, dal punto di vista dell’inspirare ed espirare, come un organismo che decade e si decompone, ecc.).

Alcuni (fra cui Bhante Sujato e Ajahn Brahmali, vedi un esempio di discussione QUI)  obiettano a questa interpretazione/traduzione sulla base del fatto che, a fronte dell’unificazione mentale e conseguente cessazione dell’esperienza sensoriale esterna, la percezione del corpo (in senso tattile) si dissolve, e l’estendere la sensibilità/consapevolezza all’intero “corpo” andrebbe in direzione opposta rispetto alla focalizzazione dell’attenzione e all’abbandono dell’attività volizionale che caratterizzano il processo del jhāna.

Inoltre, l’espressione kāyena (strumentale che si può rendere “con il corpo“, o “fisicamente”)  è frequente nei Discorsi con il valore idiomatico di “personalmente”, “direttamente”, “da sé”; ad esempio dove si parla di sperimentare direttamente la liberazione, o conoscere personalmente gli stati di concentrazione senza forma, ecc. Senza attardarmi in complesse questioni filologiche (chi è interessato può seguire un’interessante discussione dell’argomento QUI) vi sarebbero buone ragioni per intendere i riferimenti a kāya nel contesto dei jhāna semplicemente nel senso di “se stesso” o “la sua persona”, o “la sua esperienza interiore” (il meditante pervade se stesso, si soffonde, permea tutto il campo della coscienza  con la gioia e il piacere della meditazione).

Personalmente credo che in pratica la differenza sia minima: l’esperienza soggettiva di ciò che definiamo ‘corpo’ o ‘me stesso’ si modifica molto a seconda degli stati di coscienza e con l’approfondirsi della meditazione e della quiete, e varia moltissimo da persona a persona. Vi sono alcuni che hanno di norma una vaga e intermittente consapevolezza del proprio corpo, legata al contatto con oggetti esterni o a sensazioni marcate (tipicamente sgradevoli) e tendono a identificare se stessi coi pensieri. Altri partono da una sensibilità globale della presenza corporea, che tende a espandersi, alleggerirsi e sfumare con il progredire della quiete. L’ossessione di determinare che cosa esattamente il meditante “pervade, permea, satura e soffonde … con la gioia e piacere della solitudine” mi pare tipica di una mentalità lontana dall’epistemologia dei Discorsi antichi e dalla visione olistica, esperienziale della meditazione, per cui non si dà una realtà fisica oggettiva separata da una “mente” che la conosce. Sarei tentata di tradurre: “Soffonde questa roba qui con il piacere e la gioia …”. Una sfera di coscienza pulsante è pur sempre “un corpo”, tanto quanto uno gnocco difforme di vario peso e consistenza.

Abbandonare i cinque impedimenti

18 martedì Apr 2017

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

≈ Commenti disabilitati su Abbandonare i cinque impedimenti

Tag

cinque impedimenti, meditazione di consapevolezza, metafora, retta concentrazione, samadhi, Sutta

Quel che segue è la traduzione di una sezione del Sāmañ­ña­phala­sutta, il Discorso sui frutti della vita contemplativa (Dīgha Nikāya 2).

Con questa famosa serie di immagini il Buddha illustra la condizione di chi è sotto l’egida dei cinque impedimenti – schemi mentali non salutari che ostruiscono la consapevolezza e indeboliscono il discernimento – e l’importanza di assaporare la libertà da essi come fonte di un naturale sollievo ‘endogeno’ che innesca il circolo virtuoso della concentrazione, o per meglio dire dell’unificazione della mente/cuore.

Il brano appartiene alla sezione del Discorso dedicata agli aspetti dell’addestramento contemplativo che vengono riassunti sotto l’etichetta Samādhi  e che include le seguenti pratiche:

  • Indriyasaṃvara (contenimento o custodia dei sensi)
  • Satisampajañña (presenza mentale e consapevolezza situazionale)
  • Santosa (l’essere paghi di ciò che si ha)
  • Nīvara­ṇap­pahāna (l’abbandono dei 5 impedimenti)
  • 4 Jhāna (stati progressivi di quiete e unificazione)

Questa sezione è preceduta da quella sul comportamento e l’etica (Sīla) e precede a sua volta la sezione sulla conoscenza superiore (Aṭṭhañāṇa), dedicata alla visione penetrante (Vipassanāñāṇa) e alle conoscenze speciali derivanti dai poteri psichici e dalla neutralizzazione dei condizionamenti profondi o “influssi” (āsava).

“Dotato di tutto ciò che è pertinente alla moralità di un nobile discepolo, dotato della padronanza dei sensi, della presenza mentale e consapevolezza e dell’appagamento di un nobile, [il contemplativo] si reca in un luogo appartato – nella foresta, ai piedi di un albero, sui monti o in una valle, in una grotta, in un campo di cremazione, in una radura, all’aria aperta, su un mucchio di paglia. Al ritorno dalla questua del cibo, dopo il pasto, si siede a gambe incrociate con la schiena eretta e stabilisce la presenza mentale innanzi a sé.   

“Abbandonata la cupidigia nei riguardi del mondo, dimora con la mente libera dalla cupidigia, purifica la propria mente dalla cupidigia. Abbandonati rancore e avversione, dimora con una mente benevola,  che ha a cuore il bene di ogni creatura, purifica la propria mente dal rancore e dall’avversione. Abbandonati l’indolenza e il torpore, dimora percependo la luce, consapevole e chiaramente cosciente, purifica la propria mente da indolenza e torpore. Abbandonate irrequietezza e ansia, è in pace con se stesso, con una mente serena, purifica la propria mente da irrequietezza e ansia. Abbandonato il dubbio, dimora come qualcuno che non ha dubbi o incertezze riguardo a ciò che è salutare, purifica la propria mente dal dubbio.

“Grande re, immagina uno che prende una somma in prestito e la investe, e che i suoi affari vadano bene tanto che, una volta ripagato il debito, gli resti abbastanza da mantenere sua moglie. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina uno che è infermo, sofferente, gravemente malato, tanto che non gusta più il cibo e ha perso le forze. A un certo punto guarisce dalla malattia, ricomincia a gustare il cibo e recupera le forze. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina uno che viene messo in prigione. A un certo punto viene rilasciato, incolume e senza perdite economiche. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina uno schiavo, che non è indipendente ma è sottoposto ad altri e non può andare dove vuole. A un certo punto viene affrancato e diventa indipendente; non è più sottoposto ad altri e può andare dove vuole. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“E ancora, grande re, immagina un uomo facoltoso che viaggia su una strada deserta dove il cibo è scarso e i pericoli abbondano. A un certo punto esce da quella strada deserta e arriva sano e salvo in un posto sicuro. Riflettendo su questo sarebbe contento e proverebbe gioia.

“Allo stesso modo, grande re, quando un contemplativo vede che questi cinque impedimenti non sono stati abbandonati dentro di sé, si sente come se fosse indebitato, malato, incarcerato, schiavo, su una strada deserta.

“Ma quando vede che questi cinque impedimenti sono stati abbandonati dentro di sé, si sente come uno che è senza debiti, in buona salute, libero, indipendente, in un posto sicuro.

“Quando vede che questi cinque impedimenti sono stati abbandonati dentro di sé, prova sollievo. Provando sollievo, sorge la gioia. Quando la mente prova gioia il corpo è tranquillo; la quiete fisica predispone all’agio. La mente di chi è a proprio agio si unifica”.   (continua in QUESTO POST)


Altri materiali utili potete trovarli a questi link:

SATIPAṬṬHĀNA SUTTA Majjhima Nikāya 10  (sezione sulla contemplazione dei 5 impedimenti)

Similitudini dai sutta sui cinque impedimenti NIVARANA

E cliccate sui tag (o argomenti) di questo articolo per trovare altri post dedicati a cinque impedimenti, concentrazione, ecc.

Il setacciatore

11 venerdì Nov 2016

Posted by Letizia Baglioni in Sutta

≈ 1 Commento

Tag

cinque impedimenti, metafora, orafo, pamsudhovaka sutta, purificazione della mente, retta concentrazione, samadhi, samatha, setacciatore, Sutta

Quel che segue è una versione italiana (con qualche abbreviazione per facilitarne la lettura) del Paṃsu­dho­vaka­ Sutta (Aṅguttara Nikāya 3.101) un discorso dove il Buddha illustra il processo della meditazione (adhicitta – lett.: la mente/coscienza superiore, o evoluta) paragonandolo al lavoro che è necessario compiere per estrarre e raffinare l’oro, liberandolo dai materiali ai quali si trova mescolato in natura. Come spesso accade nelle similitudini del Buddha tratte dal mondo dei mestieri, il realismo dei dettagli tecnici è funzionale alla comunicazione di un saper fare basato sull’esperienza.

Quindi mi è sembrato utile se non indispensabile affiancare al testo immagini che diano un’idea degli attrezzi e dei gesti di cui si parla e del contesto generale del lavoro (ai tempi del Buddha non esisteva Youtube, quindi ci accontentiamo di approssimazioni contemporanee). L’immaginazione, unita alla conoscenza diretta della vostra mente e all’esperienza della meditazione intensiva, farà il resto! Una cosa però sarà chiara a tutti: non è un lavoretto facile e ‘pulito’, richiede tanto applicazione, perseveranza, ripetizione, tempo, quanto sapienza e conoscenza della ‘materia’. Richiede le mani in pasta ed economia di movimenti, non il distacco del sapere in teoria o uno sperpero inconsulto di energie.

NEL VIDEO QUI SOTTO LA PARTE INTERESSANTE SUL LAVAGGIO COMINCIA AL MINUTO 7.27- spostate il cursore in avanti se non volete vederlo tutto!

Chiunque abbia provato a lasciar decantare i propri pensieri, a staccarsi da un ragionamento a vuoto, una fantasia allettante, un rancore, una preoccupazione, a sottrarsi al sottile dominio di un buon sentimento o all’ansia di ‘praticare’ e di ‘vedere’, sa di che cosa parlo. E chi pensa che samatha abbia a che fare con la ‘calma’ dia un’occhiata al documentario qui sotto: come produrre oro a 24K! Scherzi a parte, l’intensa attività e l’alta temperatura della fucina (l’oro fonde a 1064 gradi!) rendono bene il lavoro psichico non visibile (ma a volte avvertibile), lo stato fluido o caotico del sistema in trasformazione e l’energia sprigionata dal processo.

Due sono le figure implicate nella similitudine: il lavatore o setacciatore (paṃsu­dho­vaka – da pamsu = terriccio, fango, sporcizia) che dà il nome al Discorso; e l’orafo, che subentra una volta che dal processo di filtraggio emerge l’oro grezzo. Nel primo stadio, preliminare, la purificazione mentale è associata all’immagine dell’acqua e del lavare; nel secondo al fuoco e al fondere, che modificano strutturalmente la materia prima. Infine, la mente “duttile, malleabile e splendente” è pronta al lavoro di investigazione che logora i legami e i condizionamenti profondi. Tipicamente, il sutta si conclude ‘in gloria’ con la liberazione dell’arhat, oltre a elencare benefici collaterali del perfezionamento di samatha.

Uno schema analogo del progressivo abbandono dei pensieri distraenti, culminante nella quiete energica e luminosa della mente unificata si trova nel famoso Discorso sui due tipi di pensiero (tradotto su questo blog) che include il passaggio standard sui quattro jhāna. La metafora della raffinazione dell’oro tramite fusione e separazione dai metalli ‘vili’ si ritrova anche in un altro discorso: Aṅguttara Nikāya 5.23 Upak­kilesa­sutta  Qui è esplicito il riferimento ai ‘cinque impedimenti’, qualità o schemi energetici e psicologici che ostruiscono la consapevolezza, offuscano il discernimento e vanno abbandonate insieme alla stimolazione sensoriale perché la mente possa accedere alla meditazione profonda. Potete leggere questa e altre similitudini per i cinque impedimenti cliccando QUI

panrocks_tn

Ci sono tre impurità grossolane dell’oro: sabbia sporca, pietrisco e ghiaia. Il setacciatore o il suo apprendista lo mette in un bacile e le lava via sciacquando e risciacquando. Una volta eliminate quelle, restano le impurità mediane: ghiaino e sabbia grossa. Il setacciatore le lava via sciaquando e risciaquando. Una volta eliminate quelle, restano le impurità sottili: sabbia fine e polveri nere. Il setacciatore le lava via sciacquando e risciaquando. Una volta fatto questo, resta solo la polvere d’oro. Allora l’orafo, o il suo apprendista, mette l’oro grezzo nel crogiolo e soffiando lo fonde eliminando le scorie.  th-gold_smith__2230611fFinché non è stato fuso e separato dalle impurità, finché non è raffinato e privo di scorie, l’oro non è duttile, malleabile o splendente. E’ friabile e non si presta a essere lavorato. Ma arriva il momento in cui l’orafo ha fatto quel che doveva fare per liberarlo dalle impurità e l’oro – raffinato e privo di scorie – è duttile, malleabile e splendente. Non è friabile, e si presta a essere lavorato. Allora, qualunque ornamento l’orafo abbia in mente – una cintura, una collana, un paio di orecchini – l’oro servirà al suo scopo.

goldsmith

Allo stesso modo ci sono tre impurità grossolane del monaco che si dedica alla meditazione: azioni scorrette, parole scorrette, modi di pensare scorretti. Il monaco coscienzioso e intelligente se ne astiene e fa in modo di eliminarle. Una volta abbandonate queste, restano le impurità mediane: pensieri sensuali, pensieri ostili, pensieri violenti. Il monaco coscienzioso e intelligente se ne astiene e fa in modo di eliminarli. Una volta abbandonati questi, restano pensieri sulla famiglia, la patria, la reputazione. Il monaco se ne astiene e fa in modo di eliminarli.

Una volta abbandonati questi, restano solo pensieri connessi alla pratica. La sua concentrazione non è calma o raffinata, non ha raggiunto il perfetto riposo o la convergenza ed è tenuta insieme da un deliberato sforzo di volontà. Ma arriva il momento in cui la mente si stabilizza, si raccoglie e si unifica. La concentrazione è calma e raffinata, raggiunge il perfetto riposo e la convergenza e non è più tenuta insieme da uno sforzo di volontà. Allora, qualunque forma di conoscenza speciale desideri ottenere, potrà farne esperienza quando c’è l’occasione.

[Segue il passo standard sulle 6 abhiñ­ñā o “conoscenze speciali” che possono essere ottenute, per quanto non da tutti i praticanti, come esito del perfezionamento della meditazione di quiete (jhāna): poteri psichici; chiaroveggenza; comprensione della mente degli altri; ricordo delle vite precedenti; comprensione del kamma degli esseri; conoscenza dell’esaurimento delle fermentazioni (āsava) o liberazione]

Se vuole, esaurite le fermentazioni mentali, dimora in quella liberazione del cuore e liberazione data dal discernimento che è priva di fermentazioni, avendola conosciuta e realizzata nel presente. E ne può fare esperienza ogniqualvolta c’è l’occasione.

Una versione dell’intero sutta, in inglese, si può leggere QUI

Da quella pagina (cliccando sul menù in alto a sinistra) si può accedere al testo pāḷi e ad altre letture sull’argomento. Un saggio particolarmente dettagliato su questo Discorso è quello di Piya Tan

Nella sezione AUDIO di questo blog troverete un mio discorso tenuto durante un recente ritiro a Tossignano (Le cinque facoltà) e intitolato Purificare l’Oro.

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